Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  ottobre 16 Mercoledì calendario

In morte di Antonio Skármeta

«In conclusione, devo dire agli uomini di buona volontà, ai lavoratori, ai poeti, che l’intero avvenire è espresso in quella frase di Rimbaud: soltanto con ardente pazienza conquisteremo la splendida città che darà luce, giustizia e dignità a tutti gli uomini».Parole di Antonio Skármeta, lo scrittore cileno scomparso ieri a qualche giorno dai suoi ottantaquattro anni. Un brano dal suo libro più popolare: il titolo in lingua originale è completamente diverso da quello italiano Il postino di Neruda, come spesso accade. Ardiente paciencia, una pazienza che brucia. Un’espressione che Pablo Neruda aveva usato durante la cerimonia del Nobel, rubata o presa in prestito da un altro poeta. Forse la si può intuire, leggere, riconoscere nel volto scavato dell’interprete che ha dato notorietà internazionale e imperitura a quella storia, nelle orbite fonde di Massimo Troisi all’ultima interpretazione.La vicenda letteraria di Skármeta si è impigliata in un film, Il postino, che giusto trent’anni fa ha dilatato a dismisura il nocciolo narrativo di un romanzo del 1986. La storia dell’incontro, su un’isola, fra Pablo Neruda e il figlio di un pescatore. Un’amicizia sghemba e imprevedibile, poetica essa stessa, che abbatte le distanze culturali: Mario capisce cosa sia la poesia dall’autore trasparente delle Odi elementari.Impara a rinominare il mondo – il mare, la sua voce, le reti da pesca: la materia ruvida dell’esistenza si fa parola, la carne si fa verbo. Poi c’è l’amore: tra Mario e Beatriz, nome dantesco, la figlia del titolare di un caffè; e c’è il battito cardiaco di un bambino che verrà alla luce; c’è la fama, un Nobel, e la malattia – «dolor y gloria»; c’è il colpo di Stato che piomba il Cile nella dittatura di Pinochet. Evento traumatico nella storia di un paese e dunque nella biografia dei singoli: lo stesso Skármeta, allora poco più che trentenne, lascerà gli studi e il suo luogo natale: «In Pinocchio, romanzo che lessi da bambino, c’è una metafora perfetta dell’esilio. Il burattino arriva sulla spiaggia dopo essere fuggito dal ventre del pescecane e dice: “Potrei avere qualcosa da mangiare senza rischiare di essere mangiato?”. Cioè: posso continuare a essere me stesso senza che la società che mi ospita divori la mia identità?».Un dolente autoesilio, tassello non trascurabile nella parabola di un ragazzo nato per scrivere. Uno che, dall’infanzia, si è messo a correre dietro alla scrittura. La agguanta e la rimodella di libro in libro. Una scelta radicale? «Quando ho deciso di scrivere a modo mio. Senza badarealle mode o alle pressioni degli editori. Così ho trovato la mia identità narrativa».Camaleontica: la sua voce – dote rara – dà l’impressione di mutare di volume in volume: ora è quella del poeta epico, di chi ha il respiro grosso e lungo quanto il corso della storia collettiva; ora è quella tenue e malinconica di un organetto; ora è quello ilare e burlesca di chi si traveste e aspetta la sorpresa sulla faccia altrui. Intanto, sulla strada della letteratura, restano le impronte, e la forma della scarpa di Skarmeta è quella di un paese che si chiama Cile. I confini sono larghi abbastanza da contenere, da trattenere tutto: compreso ciò che una dittatura cancella. A partire dalla sua generazione: «È la generazione soffocata dalla dittatura. Esiliata. Desaparecida. Cerco di limitare le parti che ne parlano perché altrimenti il dolore si ingoierebbe tutto il romanzo».Non è successo niente eI giorni dell’arcobaleno, da cui trasse un film Pablo Larraín, sono la storia di ciò che resta quando non resta la libertà. La cartografia di un mondo sommerso, invisibile, fatto delle cose che sopravvivono nella ferocia intorno se qualcuno, in sé, le alimenta, le difende.Le metafore, le conchiglie, le polene. I libri. La bellezza. In un altro, lieve e tenero memoir, Un padre da film, insegna che in settanta pagine può essere riassunta non solo una vita, una vita qualunque, ma tutta la grandezza e il mistero del nostro essere niente.Si impara all’università delle cose, degli oggetti minimi, delle verità piccole: «Il suono agonico del treno locale, le mele dell’inverno, l’umidità sulla buccia dei limoni toccati dalla rugiada del mattino, il ragno paziente nell’ombra della mia stanza, la brezza che smuove il tessuto delle tende».Un elenco “elementare” che potremmo immaginare letto con la voce del postino Troisi quando, armato di registratore, vuole lasciare impresso per Neruda il tessuto acustico dell’isola. Dà a suo modo un nome alle cose: e d’altra parte I nomi delle cose,titolo della raccolta più recente – una sequenza di racconti elegiaci pieni di irrequietezza pubblicati da Einaudi, è una indicazione di metodo. Un’idea di letteratura. Se hai le parole, battezzi il mondo.«Mi passai la mano sulla faccia, bollente, dura al tatto, con qualche granello di sabbia che mi graffiava la guancia, e cercai essere grato per il mio spazio, nella prima lingua che mi veniva in mente. Innanzitutto dissi una specie di preghiera in cui si mescolavano il Padre Nostro che sei nei cieli e le odi di Neruda e qualche poesia scritta durante l’infanzia»