Corriere della Sera, 16 ottobre 2024
L’epidemia di violenza tra gli adolescenti
«È sempre successo». Così di solito si sente rispondere chi considera i fatti di cronaca terribili di questa stagione del nostro vivere come qualcosa di spaventosamente nuovo, di spaventosamente inedito. Invece i rassicuratori ci invitano a non preoccuparci – cosa vuoi che sia se nelle scuole americane si spara – con centinaia di morti, se gli adolescenti soffrono come cani – in fondo sono pochi e non votano – se le strade di questo povero Paese – non diversamente da quelle francesi o inglesi – sono macchiate di sangue bambino.
«È sempre successo» dicono, citando la storia di Novi Ligure o quella di Pietro Maso. Ma quei casi sono estratti da diversi decenni di vita italiana; ci inchiodarono e si sono fissati nella memoria collettiva proprio per la loro terribile unicità. Ora invece facciamo fatica a ricordare la sequenza degli eventi tragici dell’ultima settimana. L’assassino diciannovenne di Rozzano ha detto che è uscito di casa con un coltello in mano, in piena notte, e ha deciso di uccidere un giovane di 31 anni «perché aveva passato una brutta giornata». Un diciassettenne di Viadana ha strangolato una donna perché voleva vedere «che effetto faceva uccidere una persona» e per questo si era documentato su Internet dove aveva lasciato messaggi di sostegno all’assassino di Giulia Cecchettin.
A Paderno Dugnano un ragazzo di diciassette anni ha ucciso madre, padre e fratello perché viveva un profondo disagio interiore fino a sentirsi «un estraneo, in famiglia e nel mondo» e ha pensato che, liberandosi dagli altri, sarebbe stato più libero e più felice. Ha qualche anno di più, solo pochi, la ragazza che, a Traversetolo, mette al mondo due creature e poi le toglie dal mondo, sotterrandole nel giardino di casa prima di andare in vacanza negli Usa.
Tutti questi episodi in un mese. Solo in un mese.
Non è «sempre successo». Non così, non tanto così. E gli adulti, quelli che hanno o dovrebbero avere più responsabilità, fanno finta di non vedere, perché questa bava di dolore e sangue chiama in causa cose profonde. Sono ragazzi italiani, sono del Nord prospero, sono di famiglie «normali». I genitori, spesso distratti da sé stessi, sono però lasciati soli, come gli insegnanti, delegittimati da uno spirito del tempo che deride autorevolezza e competenza.
Tutti soli, in una spirale di violenza e in una perdita inavvertita del valore della vita umana che assomiglia a quella che si verifica nelle zone e nei tempi di guerra.
Gli analisti della mente umana spiegheranno gli effetti che il Covid, l’impatto con la morte e la paura, hanno avuto sulla nostra visione degli altri, sul nostro rapporto con il futuro. In quei mesi allucinanti, non dimentichiamolo, furono quasi duecentomila i morti in Italia, più delle vittime civili della Seconda guerra mondiale.
Altri ci diranno dell’incidenza della società digitale nella alterazione delle relazioni tra il formarsi della vita nei ragazzi e il contesto. Del radicale modificarsi, secondo quanto dice Jonathan Haidt nel suo «La generazione ansiosa», di una esperienza adolescenziale che oggi si svolge essenzialmente attraverso il labirinto digitale. Un intrico di vie e di indirizzi nei quali è facile perdersi ed è facile soffrire.
La pressione che agisce sui ragazzi, trasformandoli da subito in soggetti esposti a una dimensione pubblica e universale, costretti costantemente a cercare conferme di autostima magari minata da un insufficiente numero di followers, la precocità con la quale si entra in contatto, basta una tastiera, con il mondo violento dei grandi, l’obbligo di crescere in fretta, di divorare il tempo, il sottile veleno della negazione della bellezza dell’altro da sé, la pesantezza di una società che trasferisce solo ansia per il futuro e che è deprivata, anche politicamente, di ogni sogno collettivo che fornisca senso: tutto questo amplifica a dismisura il male naturale di vivere che quel tempo della vita assegna all’esperienza umana.
Tempo fa un ragazzo di Torino ha accoltellato un ragazzo che passava per strada perché «era troppo felice». E il diciassettenne di Paderno ha sterminato la famiglia la notte del compleanno felice del padre. La felicità vissuta come inarrivabile e punibile in chi la mostra.
Non è «sempre successo». I ragazzi della mia generazione sono caduti quando l’eroina è arrivata a fiotti incrociando delusioni per un tempo storico che non conosceva i cambiamenti che aveva annunciato. Altri hanno preso le armi per sparare contro chi non la pensava come loro.
Ma quello che viviamo è un disagio diverso. Più diffuso – basta chiedere a chi ha figli adolescenti – più sottile, più debilitante. La forza rodomontica della società digitale si alimenta proprio della fragilità dei suoi maggiori consumatori.
Musk annuncia il robot e tutti gioiscono come bambini, senza pensare a come armonizzare questa cinematografica novità con la vita, la società, la libertà di noi mortali. Nel frattempo, sono i dati italiani a ricordarcelo, dal 2006, anno di arrivo degli smartphones, sono raddoppiati i reati verso i minori. E tra loro crescono esponenzialmente i casi di ansia, di autolesionismo, gli istinti suicidari, le forme di disturbo dell’alimentazione. O le risse violente tra gruppi di adolescenti. Il ragazzo di quindici anni di Senigallia che si è tolto la vita perché devastato dal bullismo era, secondo chi lo conosceva: «gentile, terribilmente gentile».
La gentilezza, il reato più grave, in questo tempo di lupi rancorosi.
Non è «sempre successo». La scena più struggente di «Uccellacci e Uccellini» di Pier Paolo Pasolini è quella in cui una madre, contadina, non avendo i soldi per dare da mangiare al figlio piccolo, gli risponde, quando in pieno giorno lui la chiama affamato: «Dormi, che è ancora notte».
Così finisce col fare, con cinismo, senza tenerezza, chi si ostina a non vedere che la condizione umana degli adolescenti del nostro tempo sta diventando un’emergenza.
Una feroce, dolorosa emergenza.
Alla quale è troppo facile rispondere: «Dormi, che è ancora notte».