Avvenire, 15 ottobre 2024
La sussidiarietà nel pensiero cattolico
Una formulazione esplicita del principio di sussidiarietà la troviamo nellaQuadragesimo anno (1931). Qui Pio XI, al paragrafo 80, fissava nel principio di sussidiarietà «il principio importantissimo» della vita sociale: «Che siccome non è lecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle».
Siffatto principio – il principio di sussidiarietà – è stato successivamente ripreso e riconsiderato in encicliche papali e altri documenti ufficiali; e si è configurato come un cardine del pensiero sociale della Chiesa cattolica. Principio di sussidiarietà è esattamente il titolo del paragrafo 48 della Pacem in terris (1963) di Giovanni XXIII, il quale ne estende il valore alla comunità internazionale. «Come i rapporti tra individui, famiglie, corpi intermedi, e i Poteri pubblici delle rispettive Comunità politiche, nell’interno delle medesime, vanno regolati secondo il principio di sussidiarietà, così alla luce dello stesso principio vanno regolati pure i rapporti fra i Poteri pubblici delle singole Comunità politiche e i Poteri pubblici della Comunità mondiale. Ciò significa che i Poteri pubblici della comunità mondiale devono affrontare e risolvere i problemi a contenuto economico, sociale, politico, culturale che pone il bene comune universale; problemi però che per la loro ampiezza, complessità e urgenza i Poteri pubblici delle singole Comunità politiche non sono in grado di affrontare con prospettiva di soluzioni positive». Una tale prospettiva implica – prosegue l’Enciclica – che «i Poteri pubblici della Comunità mondiale non hanno lo scopo di limitare la sfera di azione di Poteri pubblici nelle singole Comunità politiche e tanto meno di sostituirsi ad essi; hanno invece lo scopo di contribuire alla creazione, su piano mondiale di un ambiente nel quale i Poteri pubblici delle singole Comunità politiche, i rispettivi cittadini e i corpi intermedi possano svolgere i loro compiti, adempiere i loro doveri, esercitare i loro diritti con maggiore sicurezza».
Nel 1986 l’Istruzione della Sacra Congregazione per la dottrina della fedeLibertà cristiana e liberazione ribadisce (al paragrafo 73) che è il valore della dignità umana a legare il principio della solidarietà e il principio di sussidiarietà. E se in virtù del principio di solidarietà «l’uomo deve contribuire con i suoi simili al bene comune della società, a tutti i livelli» in virtù del principio di sussidiarietà, «né lo Stato, né alcuna società devono mai sostituirsi all’iniziativa e alla responsabilità delle persone e delle comunità intermedie in quei settori in cui esse possono agire, né distruggere lo spazio necessario alla loro libertà. Con ciò, la dottrina sociale della Chiesa si oppone a tutte le forme di collettivismo».
Del 1991 è la grande Enciclica Centesimus Annus di Giovanni Paolo II. Nel paragrafo 15 (b) leggiamo che lo Stato deve intervenire secondo il principio di sussidiarietà e di solidarietà. Secondo il principio di solidarietà «ponendo a difesa del più debole alcuni limiti dell’autonomia delle parti, che decidono le condizioni di lavoro, ed assicurando in ogni caso un minimo vitale al lavoratore disoccupato». Secondo il principio di sussidiarietà – «creando le condizioni favorevoli al libero esercizio dell’attività economica, che porti ad una offerta abbondante di opportunità di lavoro e di fonti di ricchezza». Più avanti nel paragrafo 48, sul tema dei compiti dello Stato in campo economico, l’Enciclica ribadisce che lo Stato deve garantire a tutti la sicurezza, la libertà di operare e la moralità pubblica; che «altro compito dello Stato è quello di sorvegliare e guidare l’esercizio dei diritti umani nel settore economico», ben sapendo che «in questo campo la prima responsabilità non è dello Stato, bensì dei singoli e dei diversi gruppi e associazioni in cui si articola la società»; che «non potrebbe lo Stato assicurare direttamente il diritto al lavoro di tutti i cittadini senza irregimentare l’intera vita economica e mortificare la libera iniziativa dei singoli»; che «lo Stato (…) ha il dovere di assecondare l’attività delle imprese, creando condizioni che assicurino occasioni di lavoro, stimolandola ove essa risulti insufficiente o sostenendola nei momenti di crisi»; che «lo Stato (…) ha il diritto di intervenire quando situazioni particolari di monopolio creino remore o ostacoli per lo sviluppo»; che, per periodi per quanto possibile limitati nel tempo, lo Stato «può svolgere funzioni di supplenza in situazioni eccezionali, quando settori sociali o sistemi di imprese, troppo deboli o in via di formazione, sono inadeguati al loro compito».
È su questo sfondo circa i rapporti tra individui, corpi intermedi e Stato, che la Centesimus Annus mette in luce gli errori dello «Stato assistenziale» e riconferma l’imprescindibile valore del principio di sussidiarietà. Il Welfare State ha cercato di porre rimedio «a forme di povertà e di privazione indegne della persona umana». Tuttavia – prosegue la Centesimus Annus al paragrafo 48 (d) – «non sono (…) mancati eccessi ed abusi che hanno provocato, specialmente negli anni più recenti, dure critiche al Stato del benessere, qualificato come “Stato assistenziale”. Disfunzioni e difetti nello Stato assistenziale derivano da un’inadeguata comprensione dei compiti propri dello Stato. Anche in questo ambito deve essere rispettato il principio di sussidiarietà: una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune. I danni provocati dall’assistenzia-lismo sono, in realtà, enormi: «intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese». E c’è di più, giacché – contro le pretese dello Stato onnipotente ma anche dello Stato onnisciente – il Papa insiste sul fatto che «conosce meglio il bisogno e riesce meglio a soddisfarlo chi è ad esso più vicino e si fa prossimo al bisognoso». E non va poi affatto dimenticato che «spesso un certo tipo di bisogni richiede una risposta che non sia solo materiale, ma che ne sappia cogliere la domanda umana più profonda. Si pensi anche alla condizione dei profughi, degli immigrati, degli anziani o dei malati ed a tutte le svariate forme che richiedono assistenza, come nel caso dei tossicodipendenti: persone tutte che possono essere efficacemente aiutate solo da chi offre loro, oltre alle necessarie cure, un sostegno efficacemente fraterno». Da qui, allora, la particolare attenzione rivolta da Giovanni Paolo II all’azione caritativa del “volontariato”, alla politica in favore delle famiglie, all’apporto di solidarietà delle altre società intermedie, alla difesa della scuola libera.
«Gli Americani di tutte le età, condizioni e tendenze, si associano di continuo. Non soltanto possiedono associazioni commerciali e industriali, di cui tutti fanno parte, ne hanno anche di mille altre specie: religiose, morali, grandi e futili, generali e specifiche, vastissime e ristrette. Gli Americani si associano per fare feste, fondare seminari, costruire alberghi, innalzare chiese, diffondere libri, inviare mislo sionari agli antipodi; creano in questo modo ospedali, prigioni, scuole. Dappertutto, ove alla testa di una nuova istituzione vedete, in Francia, il governo, state sicuri di vedere negli Stati Uniti un’associazione». È così che Alexis de Tocqueville, ne La democrazia in America, descrive il funzionamento, nella vita sociale, di quel principio che in seguito verrà chiamato «principio di sussidiarietà». Tale principio – autentico baluardo a difesa della libertà degli individui e dei corpi intermedi» nei confronti delle pretese onnivore dello statalismo – come abbiamo avuto modo di constatare, trova una formulazione, ormai diventata classica, nell’EnciclicaQuadragesimo anno (1931) di Pio XI.
Siffatto principio, cardine della Dottrina sociale della Chiesa, era stato già formulato da Rosmini (…). A fondamento del principio di sussidiarietà vi è in primo luogo la fede nella libertà: si tratta di un fondamento etico. Aveva ragione Tocqueville a sentenziare che quanti nella libertà cercano qualcosa di diverso dalla libertà sono nati per servire. Inoltre, seguendo Hayek, sappiamo che la soluzione della maggior parte dei problemi (e, dunque, il soddisfacimento dei bisogni umani) deve venir lasciata a quanti sono in possesso di quelle conoscenze di situazioni particolari di tempo e di luogo disperse tra milioni e milioni di uomini, conoscenze di cui non potrà mai disporre nemmeno il più potente governo, né il più sapiente e potente tiranno. Per questo, in un orizzonte del genere, ognuno vede «l’importanza dell’esistenza di numerose associazioni volontarie non soltanto per gli scopi particolari di coloro che condividono un interesse comune ma anche per fini pubblici nel vero senso della parola». Lo Stato, prosegue Hayek, «dovrebbe avere il monopolio della coercizione necessaria a limitare la coercizione stessa; ciò non significa che lo Stato debba avere l’esclusivo diritto di perseguire fini pubblici». Sennonché, «l’attuale tendenza dei governi a portare tutti gli interessi comuni di vasti gruppi sotto il proprio controllo tende a distruggere il vero spirito pubblico. Come risultato, un numero sempre crescente di uomini e donne si sta allontanando dalla vita pubblica, a cui in passato avrebbe dedicato molte energie».