La Stampa, 15 ottobre 2024
Primi migranti in Albania, nelle celle dei disperati
Gjadër. I letti a castello sono ancorati al pavimento. Anche i tavoli, anche le sedie. Non ci sono prese di corrente, solo ingressi Usb per i telefoni. Perché? «Ragioni di sicurezza». Il sole picchia. Il centro è vuoto. Comunque finirà questa missione italiana d’Albania, non lo vedremo mai più così.
Quanto sono grandi le celle? «Sei metri per 2.50». Cioè quattro persone in dodici metri quadrati. E cosa mangeranno? «Porzioni di cibo monouso a pranzo e cena, preparate da una ditta esterna albanese». Telecamere, sensori per il calore. Megafoni elettronici stanno alti su ogni caseggiato per le comunicazioni del campo. Per arrivare qui, nel cuore d’acciaio di questa struttura, bisogna superare la prima cancellata, fiancheggiare i prefabbricati riservati al corpo di guardia e ai dipendenti, quindi passare un altro cancello blindato.
Doppia gabbia. «Questa è la parte riservata ai richiedenti asilo», dice il comandante della polizia Massimo Scannicchio. E dentro la seconda gabbia, ecco la terza: si riconosce perché ha le grate anche al cielo. È tutta chiusa. Le porte blindate sono comandate a distanza con codici digitali. «Quella è la parte per chi non avrà ottenuto la protezione internazionale». Tre mesi per rimandarli indietro, che possono diventare al massimo sei con una proroga. E poi? Se non riuscirete a rimpatriarli, cosa succederà? Questa è la domanda che suscita il maggiore imbarazzo. È come se sottintendesse un fallimento. Perché allora i respinti dovranno essere accompagnati in Italia, da una sponda all’altra dell’Adriatico, per poi essere abbandonati al loro destino. Non ci sono altre possibilità. Lo ripetono tutti: «I migranti che verranno qui non potranno circolare liberamente in Albania».
Ecco cos’è, allora, questo posto. È una prigione italiana in terra d’Albania.«Lì ci sono le docce», dice ancora il comandante Scannicchio. «I migranti potranno lavarsi e mettersi le tute». Le tute? Come, le tute? Dovranno avere una divisa? Anche un giornalista del Times di Londra resta interdetto. Sono molti i giornalisti stranieri presenti: France 24, The Economist, The Daily Telegraph. «Saranno mica tute arancioni?», domanda il giornalista del Times. Si riferisce a quelle per i prigionieri di Guantanamo, il carcere extraterritoriale costruito dagli Stati Uniti per interrogare, torturare e tenere confinati i sospettati di terrorismo. Il comandante Scannicchio, responsabile di questo nuovo centro di «trattenimento e rimpatrio» costruito dal governo italiano a Gjadër non si scompone. Afferra il telefono, digita un numero: «Saranno tute nere», dice. «Felpe e pantaloni. I migranti arrivando dal mare avranno bisogno di cambiarsi».
Domani è il giorno. La nave della Marina Militare Libra – una nave con una storia tragica alle spalle, quella di un mancato soccorso costato la vita a 268 persone – sta puntando l’Albania. Da Lampedusa ci vogliono due giorni e due notti per arrivare al porto di Shëngjin. Fra le barche dei pescatori, c’è la banchina più grande. Lì sbarcheranno i primi migranti. Al porto c’è un piccolo hotspot senza letti. Il comandante è dirigente della polizia, si chiama Evandro Clementucci. A lui toccherà la supervisione della prima fase: distribuzione di acqua, cibo e tute nere, controlli medici, identificazione, l’intervista preliminare con l’eventuale – cioè sicura – domanda di protezione internazionale. Deve essere un giro rapido. Molto rapido. Perché non si dorme a Shëngjin. I pullman aspettano fuori: portano al campo di Gjadër.
La scommessa del governo Meloni è di chiudere la pratica di ogni singola vita umana nel giro di 28 giorni. Compresi i ricorsi. Compresi gli avvocati. Comprese le udienze di convalida, la prima e la seconda. «Abbiamo un elenco di avvocati d’ufficio», dicono i poliziotti. Una macchina da espulsioni, con gabbie di trattenimento. Questo è l’orizzonte che si vede da qui.
«Ma come farete i rimpatri?». Tutti facciamo la stessa domanda. E forse nella risposta si intravede una novità: «Stiamo parlando con il governo albanese per l’uso degli aeroporti e dei porti». Non solo voli carichi di respinti, quindi. Forse anche navi. Navi dirette dall’Albania verso la Tunisia, che è l’unico Paese con cui il governo italiano abbia un accordo sicuro. Un modo per ammortizzare le spese dei rimpatri. Un modo per poter dire: «Quel tunisino non ha mai messo piede in Italia».
E in caso di malore? «Possiamo portare il migrante all’ospedale di Lezhë, per i più gravi andremo a Tirana». In caso di incendio? «Noi faremo quello che è nelle nostre possibilità qui dentro, poi dovrà intervenire l’Albania».
Andiamo avanti. Oltre la terza gabbia. Lì, all’ultimo cerchio, c’è un piccolo penitenziario costruito con moduli prefabbricati. La quarta gabbia. Ci lavorano, a turno, trenta agenti. Vivono sopra le celle. Dormono sopra le celle. C’è una cappella con un crocefisso e lo stemma italiano. «Ma faremo anche una zona di preghiera per i musulmani», dice il comandante Riccardo Secci. Questo è lo spazio per chi delinque dentro al centro. In caso di risse, in caso di rivolte. Per i reati penali. C’è l’aula per un processo per direttissima, anche qui una gabbia per l’imputato, la gabbia numero cinque. Collegato ci sarà un giudice da Roma e un qualche avvocato assegnato dalla lista degli avvocati d’ufficio. Qui dormono i cattivi. «Sarà in tutto e per tutto un regime carcerario identico a quello che vige in Italia».
Questa è la grande illusione. Che in Albania possano scomparire i nostri problemi, le nostre lungaggini, le nostre ingiustizie quotidiane, le nostre carceri sovraffollate e vergognose.
Un fossato circonda il perimetro di tutta la struttura. Intorno, campagne, case contadine, cani randagi. L’Albania non vuole saperne niente, l’Italia non lo saprà. «Cpr». «Cara». È una prigione con dentro una prigione con dentro un’altra prigione. E se qualcuno dovesse scappare? La domanda suscita un moto di ilarità. «Scappare da qui? Nessuna possibilità di evadere».