la Repubblica, 15 ottobre 2024
Il rito “spending review” ma le forbici dei governi sono sempre spuntate
A volte – anzi sempre – ritornano. Ed ecco allora, ineluttabile nella sua ossessiva ciclicità come i supersaldi di Poltrone & Sofà, quel grande classico d’autunno che precede il freddo della legge di Bilancio e va sotto il nome di “spending review”. Braccio di ferro preventivo del ministro dell’Economia con tutti i suoi colleghi, accorati appelli di ciascun titolare a non ridurre le spese, esortazioni, blandizie e minacce del suddetto ministro dell’Economia, replica stizzita degli altri, tesa trattativa finale ed epilogo. Un vero rito della legge di Bilancio, secondo solo alla pubblica ostensione di quella figura mitologica, evanescente ma così elastica da far prevedere sempre entrate miliardarie, che è la “lotta all’evasione”.Ma guai a considerare la “spending review”, “spending” per i più intimi, un semplice dettaglio tecnico. Il taglio alle spese, naturalmente sempre e solo «improduttive» è molto più spesso anche e soprattutto un manifesto elettorale. Campioni insuperati nell’esibizione di strumenti atti a tagliuzzare le spese, i Cinque Stelle. Come dimenticare l’ostentazione dei tagli – peraltro autoinflitti, in guisa di simbolico harakiri del potere politico – in occasione del viaggio in Cina nel settembre 2019 dell’allora vicepremier Luigi Di Maio, con tanto di diretta Instagram ed esibizione del biglietto aereo? Seguì polemica se si trattasse di biglietto in Economy o in Business. Come scordarsi il primo tragitto in autobus del presidente della Camera Roberto Fico? Seguì polemica su 15 mila euro di taxi spesi in quattro anni.Passando dalla propaganda alla politica, se un padre della revisione della spesa pubblica va trovato, è senza dubbio Tommaso Padoa- Schioppa, compianto ministro dell’Economia, che il 20 giugno2007 affida il progetto a una commissione e inchioda la questione con parole definitive: «Da un lato c’è bisogno di maggiori beni pubblici e di maggiori servizi pubblici e dall’altro c’è un livello di pressione fiscale che nessuno di noi vorrebbe veder aumentare... Allora per far quadrare questi elementi c’è una sola via, che è spendere meglio; è una via larga e lunga, perché lo spazio per spendere meglio c’è ed è amplissimo».Che la via sia lunga non c’è dubbio. Ma larga proprio no, come dimostreranno inciampi e capitomboli degli anni seguenti, mentre nei titoli si alternano le «mani di forbice», i «signor no» e la «scure» che si abbatte indiscriminatamente su ministeri, auto blu, siringhe pagate da una Regione anche cinque o sei volte quel che sborsa un’altra. Dopo il rapporto della Commissione voluta da Padoa-Schioppa, che fa 90 raccomandazioni per rendere più efficace la spesa pubblica, si dedica al compito Giulio Tremonti, nel IV governo Berlusconi. «Anch’io mi sono messo d’impegno su capitoli come gli aerei blu, la vendita e l’accorpamento degli immobili, ecc. È tutto necessario ma non è sufficiente», ricorderà in un’intervista.Ma è con Mario Monti, 2011, lo spread balzato oltre quota 500, che quello per la “spending review” diventa un incarico da Commissario straordinario; difficilmente un segno di buon auspicio. Ed eccoli sfilare, i Commissari, a ritmo vertiginoso: il ministro per i rapporti con il Parlamento Piero Giarda, voluto da Monti, che ipotizza possibilità di rivedere la spesa per 80 miliardi nel breve periodo e risparmi per 300 miliardi nel lungo periodo; poi il temibile aretino Enrico Bondi, già reduce dalla missione Parmalat, e dopo di lui il Ragioniere generale dello Stato Mario Canzio. Enrico Letta chiama nel 2013 Carlo Cottarelli che arriva in Italia dal Fondo monetario internazionale e spiega che per trovare 30 miliardi di spese da tagliare adotterà un motto della sua Cremona: «Se si può, si fa senza». Ma arriva Matteo Renzi e decide che per l’appunto si può fare senza Cottarelli. Al suo posto Yoram Gutgeld e – per pochi mesi – Roberto Perotti: il puntiglioso professore della Bocconi, fa in tempo a rivelare un po’ delle assurdità italiane, ma poi, di fronte a Renzi che non segue i suggerimenti per un taglio da 10 miliardi, preferisce lasciare. Siamo già all’età gialloverde, con i meno titolati Laura Castelli per i Cinque Stelle e Massimo Garavaglia per la Lega che puntano a tagli per 8 miliardi, per passare poi al governo Draghi che lascia vuota la casella: del resto il Covid impazza, l’economia si piega, la liquidità della Bce inonda i mercati e il Patto di stabilità è sospeso; la parola d’ordine non è certo il taglio alle spese.Molti libri dei sogni, pochi sogni realizzati. Non si vuole qui certo sostenere che il principio della revisione della spesa sia sbagliato. Al contrario, quelle parole di Padoa- Schioppa restano validissime, ma si sono sempre scontrate – e continueranno a farlo – con l’inscalfibile roccia delle strutture amministrative, con il loro desiderio di autotutelarsi, e con la difficoltà di chi decide di assumersi la responsabilità – tutta politica – di decidere dove e come andare a tagliare. Adesso tocca a Giancarlo Giorgetti, ministro leghista. Chissà se rimpiange quei manifesti ingialliti con sopra scritto “Roma ladrona” che forse gli avrebbero reso più agevole il lavoro.