Corriere della Sera, 15 ottobre 2024
Sulla vecchia Sparta ci sono troppi luoghi comuni
Per Omero era «amabile» e «divina». La città, «concava Lacedemone», in cui si trovava il palazzo regale di Menelao e furono celebrate le sue nozze con Elena nell’ultima metà del secondo millennio a.C. (quando la civiltà micenea viveva l’età del suo massimo fulgore) doveva essere quanto di più bello, progredito e moderno esistesse al mondo. S’intende nel mondo all’epoca conosciuto. Le cose cambiarono non in seguito al rapimento di Elena e alla guerra di Troia ma tra il XIII e il XII secolo a.C. con il tracollo della civiltà micenea a seguito, secondo gli antichi, dell’invasione di un popolo proveniente dalle regioni settentrionali, i Dori. Da questo antefatto prende le mosse un libro assai accurato di Laura Pepe, Sparta, che esce oggi per Laterza.
Trascorsero da allora cinque secoli perché nascessero nuove città. E a Lacedemone (termine che stava a indicare anche la regione circostante) Sparta divenne «l’indiscusso punto di riferimento» dell’intera penisola quando tra la fine del VI e l’inizio del V secolo a.C. assunse la missione di fronteggiare quelle che la letteratura ci tramandò come «le smanie di espansione e di conquista del re di Persia». Dopo la vittoria ateniese nella battaglia di Maratona (490 a.C.) il re persiano Serse tornò all’attacco e, data l’imponenza del suo nuovo esercito, stavolta i Greci erano destinati a soccombere. Come terreno di scontro fu scelto, su suggerimento dell’ateniese Temistocle, il passo delle Termopili. Ma un abitante del luogo, Efialte, fece notare ai Greci che esisteva una via secondaria che conduceva dietro le loro linee. Leonida re di Sparta fece allora allontanare l’esercito e rimase a presidio delle Termopili con trecento uomini (in realtà un migliaio se si calcolano alcuni alleati). Comunque, trecento o mille, consapevolmente destinati a essere sopraffatti. E lo furono (480 a.C.) ma si batterono al massimo delle loro forze e il loro sacrificio salvò i Greci.
Secondo Erodoto il merito della vittoria finale va alla determinazione degli ateniesi. Peter John Rhodes che è uno dei migliori studiosi di quel conflitto – in Storia dell’antica Grecia (il Mulino)— riconosce che in quell’occasione i Greci non furono affatto compatti. Ma quelli che si opposero alla conquista persiana, e Sparta davanti a tutti, combatterono con patriottica determinazione contribuendo a creare un forte senso di solidarietà ellenica. Serse, invece, «rappezzò insieme un’armata eterogenea, raccogliendo uomini provenienti da tutte le province dell’impero e costringendoli alla guerra». I Persiani, pur possedendo navi ed equipaggi migliori non avevano avuto l’opportunità di combattere in mare aperto e «negli scontri terrestri gli opliti greci si erano mostrati di gran lunga più abili della fanteria persiana». Oggi, osserva Rhodes, sappiamo che questo fu l’ultimo tentativo persiano di invadere l’Europa. Ma allora nessuno, greco o persiano, avrebbe potuto esserne consapevole. Anzi «pareva chiaro che, entro pochi anni, l’impero avrebbe cercato di vendicare la propria sconfitta».
A determinare l’irripetibilità del conflitto fu il mito di se stessi elaborato dagli spartani. L’intera battaglia delle Termopili tende a essere trasfigurata già dagli antichi in chiave mitica: l’impesa militare viene plasmata in modo tale da farla sembrare «replica di altre illustri gesta eroiche». Quelle degli uomini illustri per antonomasia, «gli eroi di Omero, che ben prima degli spartiati avevano cercato e trovato la “bella morte” sul campo di battaglia, dopo aver combattuto con coraggio e spregio del pericolo». Così le cronache in cui Leonida appare consapevole che il destino che gli si profila alle Termopili lo rende simile ad Achille, «anche lui conscio del fatto che partire per Troia significava andare incontro a fine certa». Ancora, «la contesa tra spartani e persiani per prendere possesso del corpo morto di Leonida appare come duplicazione della lotta tra achei e troiani per il cadavere di Patroclo». E «lo scempio della salma di Leonida, decapitato e legato a un palo per opera di Serse, ricorda il trattamento che Achille riserva a Ettore, uccisore di Patroclo, assicurato al carro per le caviglie forate e trascinato più volte nella polvere attorno alle mura di Troia».
Scrisse Senofonte nella Costituzione degli spartani: Un giorno mi venne in mente che Sparta, pur essendo una delle città meno popolose, si era rivelata estremamente potente e rinomata in Grecia; e mi meravigliai di come questo fosse potuto accadere... poi però mi misi a considerare il modo di vivere degli spartiati e smisi di meravigliarmi». E qui Laura Pepe analizza minuziosamente la reale costruzione della società spartana dai suoi inizi alla sconfitta di Leuttra (371 a.C.) che ne decretò la fine. Dalla rupe sul Taigeto su cui venivano mandati a morte i bimbi «malnati e brutti» (Plutarco) all’«agoghé», il regime di educazione e disciplina dei bambini fin da piccoli. Smontando e rimontando i racconti che ci sono stati tramandati: erano davvero neonati i bimbi del Taigeto? Erano davvero deformi? La città fu in un certo senso governata da donne? Non tutto era «milizia e sudore». Piuttosto è nella vita quotidiana che è rinvenibile il segreto della forza di Sparta.
Sulla guerra del Peloponneso durata quasi trent’anni (431-404 a.C.) Pepe si rifà alla tradizionale «attribuzione della colpa» tucididea: all’origine del conflitto ci fu il timore di Sparta per la crescita di potere di Atene. Eppure «lo scoppio del conflitto preoccupò molto gli spartani» i quali «non amavano l’idea che il loro esercito – costretto a compiere azioni di disturbo e di invasione in Attica – rimanesse per troppo tempo lontano dalla città». Gli ateniesi inoltre potevano contare su una flotta navale e sui contributi versati dai loro alleati. Se Sparta ebbe la meglio, parte del successo va attribuito «al supporto economico fornito dalla Persia, il nemico che all’occorrenza si era trasformato in utile alleato». Gli eredi di Serse diedero un supporto fondamentale a quelli di Leonida.
Tra gli ammiratori di Sparta Laura Pepe annovera Socrate, Senofonte, Platone. Tutti costoro, scrive, «produssero e diffusero di Sparta un’immagine a seconda dei casi distorta o idealizzata, e contribuirono in modo determinante alla formazione del “miraggio spartano” (espressione derivata dal titolo di un libro dello storico francese François Ollier)». Luciano Canfora in La guerra civile ateniese (Bur) ha fatto un più malizioso elenco di personalità illustri che «si rifugiarono» a Sparta. Clistene quando ruppe con Pisistrato se ne andò, appunto, a Sparta. Alcibiade, deciso a non farsi processare ad Atene, non solo si rifugiò a Sparta ma fornì «al nemico suggerimenti strategici micidiali contro la sua città». I fuggiaschi della «cricca di Antifonte» nel 411, alla caduta della loro dittatura, cercarono riparo a Decelea, nel campo spartano. Aristotele, uno di loro, si era stabilmente «sistemato nel seguito di Lisandro». E Lisandro l’aveva mandato a Sparta a «prevenire gli efori dell’imminente arrivo di Teramene con richieste di pace». A Sparta, spiega Canfora, si creò un ambiente simile a quello degli «émigré» un paio di millenni dopo, ai tempi della Rivoluzione francese. L’uomo fuggito da Atene diviene una «figura ingombrante, onnipresente, talvolta anche determinante in campo nemico». Talché, nell’Atene sconfitta al termine della guerra civile (estate del 404 a.C.), l’imposizione tra le clausole di pace del «rientro degli esuli» fu l’arma decisiva per determinare un cambiamento di regime. Questi «émigré» del quinto secolo a.C. dovevano tutto a Sparta e fu immediatamente chiaro che ne avrebbero assecondato le disposizioni. Sia in politica interna che in politica estera.
All’inizio della Rivoluzione francese il mito di riferimento fu quello dell’Atene democratica come ben si intuisce dalla lettura del celebre libro di Benjamin Constant La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (Einaudi). Ma – ha notato Eva Cantarella in Sparta e Atene. Autoritarismo e democrazia (Einaudi Stile libero) – a partire dal settembre 1792 i giacobini «tornarono a prendere in considerazione le idee di Rousseau». In particolare «la sua ferma convinzione delle virtù di Sparta». Pur non facendo di Sparta il modello concreto del suo progetto politico, Robespierre, secondo Cantarella, «esaltava le folle celebrandola come paradigma di ogni virtù civile e morale». E al centro di questa esaltazione, fa rilevare sempre Eva Cantarella, «tornò ancora una volta la leggenda di Leonida e tutto quello che essa avrebbe continuato a rappresentare nel tempo: il senso del dovere, il sacrificio di sé, il rispetto delle leggi, la superiorità del bene comune su quello individuale». Sino a quando «a spazzare ogni traccia della riabilitante rivisitazione provvide la crudeltà del Terrore». E nel 1794 la fine di quel regime con la messa a morte di Robespierre. Il nome di Sparta «era diventato e sarebbe rimasto a lungo legato a quei terribili, sanguinosi avvenimenti».
Per Adolf Hitler, scrive Laura Pepe, «Sparta rappresentava per molti versi il modello e la prefigurazione del Terzo Reich». In Sparta, «che per prima aveva realizzato un efficace programma eugenetico, si era incarnato il primo Stato razzista e ariano nella storia, il primo Stato militaristico e pre totalitario, nel quale i cittadini erano addestrati a votare loro stessi al bene superiore e assoluto della comunità». Laddove è la stessa Pepe a dedicare gran parte del libro per spiegare che le cose stavano in modo assai diverso da come ci è stato tramandato. Hitler si rifaceva a convinzioni già radicate nella Germania del XIX secolo (peraltro diffuse ancora adesso a dispetto di molti studi che danno ragione a Laura Pepe). Del resto, Helmut Berve, noto storico dell’antichità che fin dal 1933 si era iscritto al partito nazionalsocialista (e nel 1937 fu autore di un volume su Sparta) predicava di continuo che tra Sparta e la Germania nazista non esisteva soluzione di continuità. Già nel 1934 Victor Ehrenberg, un importante docente di storia greca all’università tedesca di Praga, «aveva puntato il dito contro Sparta, segnalandola non come l’esempio da imitare ma semmai come il pericolo da evitare».
Poi nel corso della Guerra fredda molti studiosi occidentali ritennero di aver trovato analogie tra l’Atene «democratica» anticipatrice del mondo occidentale, e la Sparta «militarista» esempio di un mondo precursore di quello sovietico. Ma Donald Kagan, autore del La guerra del Peloponneso. Storia del più grande conflitto della Grecia classica (Mondadori), già aveva messo in guardia dai parallelismi da lui considerati faciloni. Secondo Kagan quel parallelismo era forse calzante in relazione alla struttura sociale ma non in materia di politica estera, anche se la coalizione di città indipendenti guidata da Sparta era più simile al Patto di Varsavia che alla Nato.
In ogni caso quegli apparentamenti alla Francia di Robespierre, alla Germania di Hitler e all’Unione Sovietica non hanno giovato, quantomeno negli ultimi due secoli, al buon nome di Sparta.
Ha nuociuto a Sparta il fatto che, a differenza di Roma o Atene, niente della città nata sulle sue rovine ricordi le glorie del passato. Del resto, Tucidide l’aveva previsto quando nella Guerra del Peloponneso aveva scritto: «Se la città degli spartani fosse devastata e di essa non rimanessero altro che i templi e le fondamenta degli edifici, penso che i posteri stenterebbero a credere che la sua potenza fosse commisurata alla sua fama». Né è valso a riportarne in auge il mito il fatto che nel 1834 Ottone, il principe bavarese che divenne primo re di Grecia dopo la liberazione dal dominio ottomano, la rifondasse e ne facesse una piccola città moderatamente suggestiva. Suggestiva sì ma non abbastanza, tant’è che Henry Miller quando un secolo dopo la visitò ne riportò l’impressione – in Il colosso di Marussi (Adelphi) – di un «borgo pittoresco, bruttino, per nulla attraente». Atene era già allora tutt’altra cosa