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 2024  ottobre 15 Martedì calendario

«A 93 anni ancora in Plaza de Mayo. Cerco giustizia, dall’Italia solo silenzi»

Buenos Aires (ARGENTINA)  Aspettano tutti «Pina». E poco dopo le 15, eccola: arriva a bordo di un furgoncino, l’abbracciano, la baciano. Invocano il suo nome. Lei, seduta in carrozzina, si tiene stretto il fazzoletto bianco sulla testa (il pañuelo): sorride, fa il segno di vittoria con le mani, si mette in testa al corteo. 
In Plaza de Mayo è appena caduta tanta di quell’acqua che le mura della Casa Rosada, lì di fronte, appaiono trasfigurate, quasi marroni; ma non c’è pioggia che fermi questo «rito», che si ripete ogni giovedì da 47 anni, ovvero da quando, per la prima volta (era l’aprile 1977), un gruppo di donne coraggiose iniziò a chiedere, davanti alla sede del governo, dove fossero finiti i loro figli e i loro nipoti catturati dalle squadre della morte, le patotas, della giunta militare argentina. 
È la marcia delle mamme e delle nonne dei desaparecidos (30 mila, un’intera generazione cancellata da una dittatura paranoica e spietata). Una marcia di verità e giustizia che si ripete ancora, anche se del gruppo originario (ed eroico) di madres, ormai restano solo poche testimoni. 
E Giuseppa «Pina» Gallà, 93 anni, è una di queste . Lei, «l’italiana». «Sono qui per il mio Vincenzo – ci ha detto, lo scorso giovedì, con una lingua ancora nitida —, e non smetterò di esserci fino a quando mi diranno dove l’hanno sepolto e finché non ci sarà giustizia». 
Chi era suo figlio?
«Vincenzo Fiore, un ragazzo buono, che aiutava tutti. Faceva l’operaio alla Peugeot, si era avvicinato al partito dei lavoratori. Me l’hanno portato via che aveva 27 anni, non aveva fatto mai niente di male». 
Quando accadde? 
«Era una sera di settembre del 1977. Lo vennero a prendere a casa: erano una decina, in abiti civili. Lo fecero salire su una “Torino” bianca (la Renault Torino, una coupé di moda in quegli anni in Argentina, ndr). Lui mi salutò con la mano in mezzo alla strada». 
Fu l’ultima volta che lo vide? 
«Sì. L’ultima volta». 
Voi quando eravate arrivati in Argentina? 
«Nel 1952. Partiti da San Mauro Castelverde in Sicilia: io, mio marito e il piccolo Vincenzo, che allora aveva solo 2 anni. Imparò a camminare proprio sulla nave per Buenos Aires». 
Lo portarono via, dunque. E lei cosa fece? 
«Andai a fare denuncia alla polizia. Mi dissero che Vincenzo non era in caserma. Era una bugia. L’avevano incarcerato a Quilmes». 
Come lo seppe? 
«Me lo raccontarono tempo dopo due fratelli italiani, poi liberati. Mi dissero di aver visto Vincenzo con la barba lunga in quel centro di detenzione. Penso che siano stati i suoi ultimi giorni». 
Le mamme di altri desaparecidos di nazionalità italiana (44 in tutto), provarono anche con l’ambasciata. 
«Sì, ci andai anche io! Raccontai tutto quello che sapevo. Ma non mi fecero mai sapere nulla. Potevano salvarlo, ne sono sempre stata sicura». 
Ha mai avuto paura? 
«I militari vennero anche a minacciarmi: non dovevo cercarlo. Molte compagne poi furono arrestate e uccise. Ero disperata e in pena, ma paura no, non potevo fare altro». 
In tutti questi anni dall’Italia qualcuno delle istituzioni si è mai fatto sentire? 
«No, neanche una telefonata. Sono stata abbandonata. Solo il sindaco di San Mauro, pochi anni fa ha fatto apporre una targa sulla nostra vecchia casa di famiglia». 
E in Italia è tornata? 
«Quattro volte. Ma è sempre un grande dolore. Perché, per me e Vincenzo, il mio Paese non c’è stato». 
La Chiesa all’epoca vi fu d’aiuto? Ci furono religiosi incarcerati dalla dittatura, ma le gerarchie spesso si mostrarono conniventi. 
«No, in assoluto». 
E papa Bergoglio? 
«A noi madri, dal Vaticano, ha fatto mandare un rosario. Alcune mie compagne se lo sono portate nella tomba, io non so cosa farò». 
Lei crede ancora? 
«Nonostante tutto non ho perso la fede. Dio saprà quello che dovrà fare». 
Il presidente Milei oggi ridimensiona i numeri dei desaparecidos. Cosa ne pensa? 
«Non voglio neanche sentirlo nominare». 
Vincenzo dove potrebbe essere? 
«Un giorno una donna mi avvicinò al cimitero e mi indicò una fossa comune. Mi disse: è lì. Ma non l’hanno mai trovato». 
Cosa conserva di lui? 
«I suoi vestiti. E una foto, che guardo sempre: Vincenzo a 18 anni, gli avevamo fatto una grande festa, era così bello». 
Qual è il suo desiderio? 
«Sapere dagli assassini di mio figlio dove l’hanno buttato. Non me lo diranno, ma io ho ancora forza, perché quello che ho vissuto non deve più succedere a nessuno».