Corriere della Sera, 15 ottobre 2024
Reportage dai centri migranti di Shengjin e Gjader
Colpiscono i pavimenti verde speranza, anche fuori, all’aperto, quasi ci fossero dei prati tutt’intorno. È stato scelto questo colore perché è rilassante, ci spiega durante la visita il responsabile del primo centro costruito all’estero per ospitare – secondo le leggi italiane – richiedenti asilo con poche o zero chance di ottenerlo: sono stati selezionati uomini maggiorenni, senza famiglia, apparentemente in buona salute e provenienti da Paesi considerati sicuri da Roma. Ci vorrebbe ben altro per dare loro speranza e relax: intercettati a un passo dal loro ingresso in Europa da motovedette italiane per lo più a bordo di barchini, stanno per essere «dirottati» in un Paese fuori dall’Unione, l’Albania, in base all’accordo siglato l’anno scorso tra i due governi. Stanno viaggiando a bordo della Libra, la nave della Marina militare diventata tristemente famosa nel 2013 quando fu invitata a non rispondere alle disperate richieste di soccorso inviate dai naufraghi siriani in acque maltesi e ora diventata un hub galleggiante.
Partita ieri al largo di Lampedusa, attraccherà entro domani con il primo gruppo di profughi al porto di Shengjin, un’ora d’auto a nord di Tirana. Qui si trova il primo dei due centri costruito dagli italiani e presidiato da poliziotti, carabinieri e finanzieri: 3.500 metri quadrati per l’accoglienza e l’identificazione dei nuovi arrivati. Dopo diversi rinvii, sono stati resi accessibili soltanto pochi giorni fa: c’è ancora odore di malta in giro. In questi edifici i migranti verranno rifocillati, riceveranno abiti puliti (felpe e tute blu o nere) e un codice Qr, faranno uno screening sanitario, infine potranno presentare la domanda d’asilo. Tutto nell’arco della giornata, perché a Shengjin non ci sono letti.
Seguirà poi il trasferimento in pullman nell’altro centro, quello di Gjader, una ventina di chilometri nell’entroterra, su una collina. Un’area desolata, già sede dell’Aeronautica militare albanese e riportata a nuova vita dal genio dell’esercito. Un enorme recinto di cemento sovrastato da reti metalliche alte sei metri delimita un’area di 70 mila metri quadrati ripartita in tre settori: il più grande è per i richiedenti asilo, una serie di blocchi con camere da quattro letti dotate di aria condizionata, tavolini con sedie, doccia e prese usb, materassi ancora incellophanati e pulizie in corso. Non c’è una mensa, né un refettorio: il cibo arriverà pronto e si consumerà nelle aree comuni.
La permanenza qui è di massimo quattro settimane: con la procedura accelerata d’asilo, è questo il tempo previsto per concludere l’iter. Dopodiché o viene riconosciuta la protezione internazionale e si viene portati in Italia oppure (esito più probabile) scatta il decreto di espulsione. Gjader per ora può accogliere al massimo 400 persone ma il cantiere è ancora aperto, l’obiettivo è raddoppiarne la capienza.
A quanti è negato l’asilo e sono in attesa di essere rimpatriati è dedicato un altro settore del centro. Superblindato: è delimitato da un reticolato a ferro di cavallo alto quattro metri, una seconda barriera oltre alla recinzione esterna. All’interno ci sono le aule per le udienze di convalida dell’autorità giudiziaria, in remoto. Passati al massimo tre mesi, se tutto fila liscio, i rimpatri dovrebbero avvenire direttamente da qui, ma gli accordi con le autorità aeroportuali di Tirana sono ancora da definire.
C’è poi un terzo settore che è un piccolo penitenziario con 20 posti, per quanti hanno commesso reati all’interno del centro. È la prima volta che si allestisce un carcere italiano all’esterno, fuori dai nostri confini, considera la responsabile Silvana Sergi, già direttrice di Regina Coeli. Tra le sfide di questo primo esperimento di gestione extraterritoriale dei migranti la sentenza della Corte Ue che costringe l’Italia a restringere la lista dei Paesi sicuri.