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 2024  ottobre 14 Lunedì calendario

Fare di Google uno spezzatino? Le lobby si oppongono

Da tempo nel mirino dell’Antitrust e dei giudici per il suo monopolio di fatto nel search, Google rischia per la prima volta un intervento drastico: tra le varie sanzioni possibili, il ministero della Giustizia, chiamato a proporre in tribunale una soluzione entro il 20 novembre, sta considerando anche l’opzione dello spezzatino: separare in società diverse il motore di ricerca dalle altre principali attività della società californiana, cioé il browser Chrome e Android, il sistema operativo per gli smartphone. 
È solo un’ipotesi, ma ha fatto scalpore (e ha fatto subito perdere il 2,5% alle azioni Google) perché è da 40 anni che in America non si registrano interventi così incisivi contro i monopoli. L’ultimo risale al 1984 quando il colosso delle tlc AT&T fu diviso in 7 compagnie regionali (le “baby Bells”). Ci fu ancora un tentativo un quarto di secolo fa (1999) quando il governo sconfisse in tribunale Microsoft, accusata di abuso di posizione dominante. Ma la società fondata da Bill Gates riuscì a evitare, in appello, la scissione delle sue attività.
Da allora nessuno ha più osato tanto, mentre il potere di big tech è cresciuto enormemente. Negli ultimi anni, però, i giganti della Silicon Valley, sempre più ricchi e avidi di dati privati dei loro utenti, hanno perso la simpatia del pubblico. La musica è cambiata anche a Washington con l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca: il leader democratico ha ridato vigore alle attività antitrust della Federal Trade Commission mettendo alla sua guida la dinamica e inflessibile Lina Khan mentre un altro mastino, Jonathan Kanter, è andato a dirigere il desk del ministero della Giustizia che combatte i monopoli.
Una questione complessaIl Justice Department punterà davvero alla scissione per mandare un segnale esemplare a tutto il mondo della tecnologia? E il giudice Amit Mehta – che ha già riconosciuto Google colpevole di comportamenti monopolisti, ma non ha ancora stabilito la sanzione – condividerà una soluzione basata sullo spezzatino? La questione è molto complessa, tra divisioni di un sistema politico polarizzato, forza crescente delle lobby digitali e rapida evoluzione della tecnologia che altera la realtà che dovrebbe essere giudicata.
Ma si può fin d’ora prevedere che non ci sarà nessuna scissione. Lo si evince, intanto, da questioni tecniche e giudiziarie: non è detto che il governo, pur volendo punire Google che ha conquistato il mercato del search pagando miliardi ad Apple, Samsung ed altri per avere il suo motore di ricerca istallato di default nei loro smartphone, sia intenzionato a infliggere un danno grave a una delle più importanti società tecnologiche americane in tempi di sfida all’ultimo sangue con la Cina per la conquista del primato nell’AI. E anche il giudice Mehta, pur desideroso di emettere una sentenza esemplare, sembra orientato a imporre correttivi efficaci ma limitati, come interrompere il circuito che ha consentito a Google di continuare a godere di una posizione quasi monopolista, a pagamento. In caso di condanna, poi, l’appello (già annunciato) bloccherebbe le sanzioni per anni.
Ma ci sono anche buoni motivi politici. Nessuno sa chi la spunterà nel testa a testa delle presidenziali Usa, ma, in ogni caso, si delinea fin d’ora un altro vincitore: la Silicon Valley che vuole continuare a crescere senza regole.
Il mondo della tecnologia apparentemente è diviso, anche politicamente: Elon Musk e Peter Thiel (fondatore di Palantir e Paypal, primo investitore in Facebook), sostengono Donald Trump insieme al gigante del venture capital Andreessen Horowitz e a investitori come David Sacks e Chamat Palihapitiya. Altri giganti come Microsoft, Alphabet-Google e Amazon non si schierano esplicitamente ma sembrano più vicini ai democratici. Attivo sostenitore di Kamala, invece, Reid Hoffman di LinkedIn. Meno esposto Mark Zuckerberg di Meta-Facebook: considerato da Trump un nemico, preferisce tacere.
Quando, però, si parla di regole contro i monopoli e di guard rail per le tecnologie digitali (unico settore non regolamentato a differenza degli altri, dalla farmaceutica all’auto) queste differenze tendono a scomparire. Se Trump tornerà alla Casa Bianca, la Silicon Valley continuerà ad avere le mani libere: The Donald promette che, anziché regolamentare, cancellerà molte norme ed è diventato addirittura un fan delle criptovalute che fino a qualche tempo fa giudicava pericolose. Certo, lui è sempre imprevedibile, ma avrà al suo fianco JD Vance, suo probabile erede, legatissimo al mondo tech e a Thiel (al quale deve la sua carriera in finanza, la ricucitura dei rapporti con Trump e il finanziamento della campagna con la quale è diventato senatore).
Cambio in corsaOra fa sensazione il cambio di rotta di Ben Horowitz. A luglio aveva condiviso col suo partner, Marc Andreessen, l’endorsement di Trump. Ma adesso ci ripensa: sostiene (e finanzia) Kamala Harris. Rottura col suo partner? Macché: semplice divisione delle fiche sul tavolo verde. Horowitz lo spiega in una lettera ai dipendenti. A luglio, quando si era schierato con Trump, il candidato democratico era ancora Biden che, avendo tentato di riattivare le norme antitrust e di promuovere una blanda regolamentazione dell’AI, è stato bollato come nemico. Ma ora, con Kamala Harris, la musica potrebbe cambiare: è una californiana di San Francisco cresciuta nell’hi-tech: «Io e mia moglie Felicia la conosciamo da più di dieci anni, è un’amica e sono incoraggiato dalle conversazioni che ho avuto con lei». La Harris non ha ancora detto come intende comportarsi col mondo delle imprese digitali se diventerà presidente, ma non tira una buona aria per i regolamentatori. Qualche giorno fa è scaduto il mandato triennale di Lina Khan che nei suoi mille giorni alla guida della FTC ha contestato comportamenti anticompetitivi a Microsoft, Amazon, Meta e Lockheed-Martin. I sondaggi dicono che l’80 per cento dei democratici approva quanto ha fatto nel campo dell’antitrust, ma molti grandi finanziatori del fronte progressista pensano, invece, che la Khan sia andata oltre i limiti del suo mandato e chiedono alla Harris di non confermarla. Tra questi anche Reid Hoffman e Barry Diller.
Atri segnali vengono dalla California. Il Parlamento dello Stato ha approvato con voto quasi unanime al Senato (32 contro 1) e con ampia maggioranza alla Camera (48 a 16) una legge che responsabilizza i produttori di modelli di AI chiedendo loro di testare la loro affidabilità prima di metterli in commercio e di rendere pubblici i loro protocolli di sicurezza. Ma all’improvviso democratici di rango nazionale come Nancy Pelosi hanno cominciato a sparare contro questa legge e alla fine Gavin Newsom, governatore progressista cresciuto a San Francisco insieme alla Harris, l’ha bloccata ponendo il suo veto.