Tuttolibri, 14 ottobre 2024
Gli inquisitori lo sanno: l’umanità è più incline al pianto che al riso
All’uscita de Il nome della rosa, nel cui epilogo il vecchio monaco cieco Jorge da Burgos brucia l’ultima copia rimasta del fantomatico secondo libro della Poetica di Aristotele – quello che sarebbe stato dedicato alla commedia, e quindi al riso – fu evidente a tutti come Umberto Eco, che più di chiunque altro si era impegnato a sdoganare i generi minoritari e negletti, avesse voluto mettere in scena l’antico anatema che il potere e la religione avevano sempre scagliato contro una visione leggera, comica della vita.I cultori dei testi sacri, delle opere dei Padri della Chiesa, gli esegeti dei generi alti e gravi, non potevano tollerare che il sommo Aristotele avesse voluto codificare anche un genere triviale come la commedia, mentre la dimensione più consona a noi umani sarebbe quella della sofferenza, dell’espiazione e, al massimo, della catarsi.Ma il comico, la satira è veramente un genere inferiore? È proprio figlio di un dio minore chi fa ridere? Davvero le pagine più divertenti sono inabili a salire ai piani alti dell’arte?Da un punto di vista teorico naturalmente no, non c’è davvero nulla che possa far ritenere il serio più adatto del faceto a esprimere lo spirito di questa e di ogni altra epoca. Anzi, è l’esatto contrario: il comico è il genere più difficile, perché è più difficile che duri.Pensiamo alla meravigliosa dichiarazione di fede di Margutte, il “mezzo gigante”, coprotagonista del più geniale poema eroicomico della letteratura italiana quattrocentesca, il Morgante di Luigi Pulci. Il quale Margutte, interrogato per l’appunto da Morgante su se «creda in Cristo o in Apollino», ovvero se sia cristiano o mussulmano, risponde: «A dirtel tosto, / io non credo più al nero che all’azzurro, / ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto, / e credo alcuna volta anco nel burro». Per concludere: «ma sopra tutto nel buon vino ho fede, / e credo che sia salvo chi gli crede».I successivi versi sulla Trinità, poi, sono ancora più vertiginosamente blasfemi: «… e credo nella torta e nel tortello: / l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo, / e il vero paternostro è il fegatello, / e posson esser tre, due e uno solo / e deriva dal fegato almen quello…».Questo campione immortale, erede di tutti i Cecchi Angiolieri e padre di tutti i François Rabelais a venire, sarebbe stato messo subito sul rogo dai vari Jorge da Burgos, eppure questi inquisitori di una cosa si erano accorti: che, forse non nella vita, ma sicuramente nell’arte, l’umanità è più incline al pianto che al riso.Mentre i maggiori poeti tragici, che ci mettano di fronte agli orrori del mito o ai drammi della storia, non hanno perso nulla della loro forza sconquassante e primitiva; anzi, è come se i loro atroci dilemmi, infilati nel tubo cavernoso dei millenni, ne uscissero fuori con un singhiozzo quasi più stupefatto e dolente, i commediografi anche grandi, semplicemente, non fanno più ridere.Proviamo a rileggere una commedia di Aristofane, che cosa ci troviamo? Un po’ di piacevole spaesamento davanti a qualche battuta scurrile, che, da attempati liceali abituati a penare sulla nobiltà delle orazioni e sulla gravità dei cori, ancora ci sorprende; qualche accenno beffardo a colleghi filosofi che ancora si riesce a cogliere, qualche offensiva allusione a qualche arconte che solo gli storici dell’antichità sono in grado di riconoscere…e poi? E poi basta. Come potremmo pretendere, d’altra parte, che gli esseri che popoleranno la galassia tra qualche millennio possano sbellicarsi davanti a un Salvini, un Briatore, un Feltri o un De Luca rifatti da Crozza?Il comico, se non è il Margutte del Morgante, invecchia prima, sbiadisce in fretta via via che si allenta il legame con gli oggetti dello scherno e con lo spirito dei tempi. Alcune invettive sono eterne, ma ogni epoca ha i suoi bersagli. Nel clima surriscaldato di fine Ottocento e d’inizio Novecento, carico di tentazioni occultistiche, e di quel misticismo superomistico e di quelle degradate passioni ultraromantiche che creano il terreno propizio alla Grande Guerra, i versi in cui Ernesto Ragazzoni, anarchico, giornalista della Stampa, scamiciato e barbona nera, prende in giro la passione del Werther sono una boccata d’aria fresca: «Il giovane Werther amava Carlotta / e già della cosa fu grande sussurro. / Sapete in che modo si prese la cotta? / la vide una volta spartir pane e burro…». Ed è un piccolo gioiello sia il beffardo suicidio («strillò che bersaglio di guai era, e centro, e un giorno si fece saltar le cervella, / con tutte le storie che c’erano dentro») sia la conclusione che dimostra come tutto lo Sturm und Drang dell’Italietta umbertina sia una cosa sola, piccola mediocrità borghese: «Lo vide Carlotta che caldo era ancora, / si terse una stilla dal bell’occhio azzurro; / e poi, volta a casa (da brava signora), / riprese a spalmare sul pane il suo burro».Anche le forme della comicità invecchiano, forse più quelle in prosa che in poesia. Lo stile elegante e surreale di Achille Campanile oggi è capace di intrigare solo i cultori della materia e nemmeno la maschera più emblematica della comicità italiana recente, il personaggio che resta il più citato quando si deve alludere alla tragicomica dimensione dell’italiano medio, riesce più a far ridere come un tempo, perlomeno quando lo si legge: Fantozzi. Provate a rileggerlo e lo troverete rozzo, superato, distante magari anche solo per ragioni di politically correctness… Ma siamo figli del nostro tempo, comunque sia, e come potremmo ancora sghignazzare davanti a un passo così? «Passarono vicino a un gruppo di giovinastri. Uno disse forte: “Che cesso quella donna con quell’imbecille!”. Tutti risero e lui sperò che la signorina Silvani non avesse sentito, anzi per precauzione alzò ancora di più la voce. “Guarda che dice a te, sai”, incalzò un altro giovinastro “e ti dice che la tua amichetta è un cesso!"».E invece il pianto è di moda e comunque, da sempre, ha dimostrato di poter consolare più del sorriso. I lettori, soprattutto i giovani, da I ragazzi della via Pal a Incompreso ad Alaska a La canzone di Achille, cercano più pretesti per piangere che per ridere. Ed è così anche quando si siano del tutto interrotti i rapporti con ciò che ha generato il pianto.Da quanto tempo in occidente non sacrifichiamo animali agli dèi? Eppure andatevi a rileggere il lamento della giovenca nel De rerum natura di Lucrezio, magari nella recente, magnifica traduzione di Milo De Angelis. Nel lamento della madre che cerca il vitello sacrificato e riempie il campo dei suoi muggiti sconsolati c’è il dolore del mondo, non solo quello umano ma di tutte le creature viventi. Nelle parole di un poeta di duemila anni fa c’è ancora tutto quello strazio che non passa, non può passare mai.