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 2024  ottobre 14 Lunedì calendario

Biografia di Antonio Moresco

Verrebbe da chiedersi che tipo di scrittore sia Antonio Moresco, ma poi sorge il dubbio che ogni definizione gli vada stretta: Magmatico?
Certo. Incendiario? Sì.
Barocco? Assolutamente.
Fluviale? Anche. Sanguinante? Nel senso almeno delle ferite che lascia trasparire, soprattutto. Si tratta di un gioco al rilancio tra un aspirante suicida e il resto del mondo. In mezzo, una storia stranissima, dolorosa e formativa, quasi unica. Ma senza un vero destinatario. Un po’ come quel piccolo capolavoro che Moresco pubblicò nei primi anni Novanta (e poi aggiornò) Lettere a nessuno,dove raccontava, insieme a tante altre cose, le sue penosissime vicende editoriali. Diciamo la verità, uno scrittore così per leggerlo ce lo dovremmo meritare. Il suo ultimo libro, una specie di sabba notturno del nostro presente, èCanto del buio e della luce (Feltrinelli), pubblicato qualche mese fa. A novembre uscirà il Meridiano Mondadori di Agatha Christie che ha curato, e un suo libretto dedicato a Leopardi.
Scrivi tanto. Ti dai un limite alla scrittura?
«Come chiedermi se vi sia un limite alla vita. Dipende se sei di robusta o fragile costituzione».
Hai immaginato nel tuo ultimo romanzo un mondo in cui la luce progressivamente sparisce. Cosa significa vivere nelle tenebre?
«Non ho pensato all’ovvia metafora del male che in quanto buio sconfigge il bene. La Bibbia e le religioni in genere hanno lavorato su questa immagine. Quello che a me interessava è come realmente noi percepiamo il buio e che relazione conoscitiva stabiliamo grazie ad esso».
Si può conoscere il buio?
«Lo puoi affrontare. Farne esperienza. Un teologo direbbe che il buio è quello tra l’ora sesta e l’ora nona, mentre il Cristo spira sulla Croce. Un fisico obietterebbe che il buio non esiste, mentre un narratore di fiabe darebbe al buio la consistenza stessa della paura. Un filosofo attribuirebbe alla luce l’idea di verità e al buio quella dell’errore».
Oggi si parla e si congettura della “materia oscura”.
«I fisici sostengono che la “materia oscura” compone il 95 per cento dell’universo. Una sostanza irraggiungibile che non dà segni di vita, non emette radiazioni. Mi ha sconvolto».
Cosa ti ha sconvolto?
«Che le nostre conoscenze al più si riducono al cinque per cento. Ecco perché ho provato a navigare su questo immenso mare di oscurità».
Anche la tua vita è stata piuttosto buia.
«Provengo da una famiglia che ha vissuto nei reconditi del buio. Acquattata dentro tane misteriose».
Dieci anni fa, sulla tua disperata genealogia, hai scritto “I randagi”.
«Che ti è sembrato di quel libro?».
La prima cosa che ho pensato è che non avrei voluto essere un tuo familiare. Poi ho capito che parla dell’affetto che ti è mancato nella giovinezza.
«Pensi che io abbia saldato un conto sentimentale?».
Penso che senza quel libro saresti diverso.
«I libri ti cambiano. Sono come una resa dei conti. Sennò che scrivi a fare?».
Dove sei nato?
«A Mantova. Un’infanzia funestata dalla violenza».
Di chi contro chi?
«Principalmente mio padre. Lui contro tutti. Si chiamava Pietro».
E perché tuo padre era violento?
«È come se, dopo la guerra e la lunga prigionia, avesse perso il piacere di stare al mondo. Era diventato alcolista, se ne stava quasi sempre muto. Il solo linguaggio che conosceva gli veniva dalla brutalità delle mani, con cui a volte malmenava mia madre. Non era stato sempre così. Ci fu un tempo di vivacità e allegria. Sfrecciava per il paese con una motocicletta senza timore alcuno. Con una vena di provocazione e follia che lo rendeva affascinante».
Hai conosciuto di lui solo il lato brutale?
«Quando morì, mia madre mi mostrò alcune carte che documentavano la sua prigionia in India e il periodo successivo che passò in ospedale prima del ritorno a casa. Fu un’esperienza dolorosa dalla quale non si riprese più. Fu sempre mia madre a dirmi che anche in piena estate papà voleva che la stufa restasse accesa in camera da letto. Abituato al caldo torrido dell’India, gli sembrava che Mantova si travestisse d’inverno perfino nel mese di agosto. Passava le giornate a tremare e a batteri i denti. Incredibile a dirsi ma sono stato concepito in quella “fornace”».
Hai raccontato che il parto che ti ha messo al mondo fu drammatico.
«Sono uscito a fatica a causa della mia testa piuttosto voluminosa. Ancora oggi, quando la notte sogno di soffocare, mi sveglio nell’impressione di aver gridato per il terrore di non farcela».
Temi la morte?
«Ho temuto di più la condizione di smarrimento: le incomprensioni, i rifiuti, le attese inutili, gli appuntamenti rinviati, quando una lettera o una telefonata non arrivava, i compatimenti, la progressiva perdita del rapporto con la realtà, la morte delle illusioni».
Questa materiale da perdente ti è però servito. Ne hai fatto, in qualche modo, un punto di forza.
«Pensandoci è come se guardassi alla mia precedente vita. Quel fallimento che sembrava annunciarsi a ogni mia decisione, da un lato ha infragilito i miei nervi, dall’altro mi ha trasformato in un cane da combattimento».
Come ne sei uscito?
«Se ripenso agli anni della mia prima vita vedo la mia città, Mantova, le esperienze scolastiche catastrofiche, il periodo trascorso in seminario a Bergamo, e quello passatio nel palazzo nobiliare dove mia madre era a servizio. Vedo Milano dove mi trasferisco alla fine degli anni Sessanta: la militanza politica in Autonomia Operaia, la solitudine nell’esaltazione collettiva, lo sconforto immaginando una società perfetta che non sarebbe mai arrivata».
Che decennio è stato?
«Non mi pento né mi vergogno di quello che ho fatto.
Come tanti altri ho provato anch’io le stesse illusioni di redenzione umana e riscatto. Ho vissuto ai margini; ho lavorato come operaio, facchino, bracciante. Impiegato come portiere di notte. Ho visto il buono e il cattivo. Separato in modo manicheo il bene dal male. E so che se i nostri apprendisti stregoni avessero vinto sarebbero diventati tanti piccoli Pol Pot. Tornai a Milano alla fine degli anni Settanta, scassato da una crisi nervosa. E lì faticosamente ho bussato timidamente alla mia seconda vita».
Che è nata grazie a chi o a cosa?
«Grazie al fatto di aver conosciuto un’umanità che mi ha fatto crescere come scrittore. La prima cosa che mi consigliarono fu una visita psichiatrica. Andai alle Molinette di Torino. Il medico che mi visitò mi parlò di un articolo che aveva scritto sugli stati depressivi di Cesare Pavese. Pensai ma perché mi parla di Pavese? Gli dissi, e non era vero, che non lo conoscevo. Mi sembrò deluso e a quel punto divenne sbrigativo. Mi prescrisse degli psicofarmaci. Non posso prenderli, gli dissi. Li prenda che la rassereneranno. Non voglio essere rasserenato, risposi. E comunque se li assumo mi viene voglia di suicidarmi. Ma allora perché è venuto da me, sbottò spazientito. Uscii più confuso di prima. Tornai a Milano, cominciai a scrivere e a leggere».
Fu questa la cura?
«Sentivo rinascere un po’ di forze mentali. Scrivevo soprattutto di notte. Per non svegliare la mia compagna mi rifugiavo nel gabinetto. Scrivevo seduto sulla tazza del cesso. E leggevo per la prima volta scrittori, poeti, filosofi che sarebbero diventati come fratelli e sorelle. Aloro ho pensato quando ho scritto i primi libri».
Hai raccontato delle difficoltà a pubblicare.
«È stato un calvario e una scuola di resistenza: 15 anni di no. Potrei fare la lista tragicomica di tutte le case editrici che in un modo o nell’altro hanno rifiutato i miei primi libri».
Ti sei vendicato scrivendo monumentali romanzi.
«Tu scherzi. Vivo in urto totale con l’uso e la dimensione della scrittura che dominano oggi. Se i parametri sono brevità e velocità allora mi considero un alieno».
Che tipo di scrittore ritieni di essere?
«Sicuramente diverso da tutti gli altri. Non meglio o peggio. Diverso. Quando mi sono buttato su questa strada – come fosse una questione di vita o di morte, come se fosse l’unica carta che avessi da giocare nella mia vita – ho affidato alla letteratura, allo scrivere e al pensiero un compito enorme, però anacronistico, desueto. Inattuale».
Grande compito in che senso?
«C’è una frase di Flaubert che dice: “Il linguaggio è simile a un tamburo rotto su cui battiamo melodie per far ballare gli orsi, mentre ciò che desideriamo è fare musica che commuove le stelle”. Vorrei anch’io commuovere le stelle. Ho questa grande illusione. Tutto quello che ho patito non l’ha distrutta. E penso che dentro di me ci siano tutte queste strane e disperate voci dei miei antenati che la scrittura strappa dal buio e porta alla luce».
Sei uno scrittore che non rinuncia le proprie radici. Chi ha aperto la porta al tuo primo libro?
«Si chiamava Clandestinità, rifiutato da tutti. Poi lo inviai per posta, da sconosciuto, a Giulio Bollati. Scoprì chi era l’autore e mi scrisse dicendosi onorato di conoscermi e pubblicarmi. Quest’uomo alto, timido, intelligente, colto e raffinato mi aprì la sua porta».
Immagino che ti sarai chiesto del perché di tutti i rifiuti. Del perché sei stato uno scrittore sommerso, per il quale non userei la parola “incompreso”.
«Trovo patetica la parola “incompreso”. Preferisco “sotterraneo”, descrive meglio ciò che sono. Forse in quegli anni lì c’era un’idea di letteratura debole e io invece affidavo allo scrivere ancora delle cose estreme. Risultavo una specie di randagio. Ero uno scrittore fuori tempo. Non sono stato rifiutato solo da oscuri funzionari di case editrici ma anche da eminenti scrittori. Forse perché ho rotto il galateo letterario. Anche dopo che ho pubblicato sono continuate le incomprensioni, le critiche, le derisioni».
Tuttavia hai perseverato.
«Pubblico confortato dal fatto che i giovani mi leggono. Che sono tradotto e apprezzato in Francia, Germania, Spagna. Negli Stati Uniti. Solo in Italia, dove vige il bon ton letterario, vengo considerato un oggetto misterioso».
Un’ultima questione: mi ha stupito la tua introduzione e la cura del Meridiano Mondadori dedicato a Agatha Christie.
«La verità è che sono stato e in parte sono ancora un avido lettore della cosiddetta letteratura di genere».
Appunto.
«Guarda che è molto più interessante della letteratura del tardo Novecento che ha eliminato il confronto tragico tra bene e male e ha ridotto la narrativa a un parco giochi.
Trovo più interessante leggere un giallo dove ancora quella tensione, a tratti metafisica, continua a esistere».
Ma la Christie in tutto questo? Voglio dire, che cosa hai a che fare con lei?
«Mi affascina il suo doppio fondo. Non parlo della scrittrice di enorme successo, ma di ciò che è sotto alla sua affermazione planetaria. Altri grandi scrittori di gialli non hanno il suo immaginario da bambina bloccata. C’è una scrittrice nascosta, irraggiungibile, dentro un’altra scrittrice, che si descrive come una salsicciaia delusa. C’è in lei una parte occulta, fiabesca, nera che la rende straordinaria. Un pensiero duro, quasi nichilistico dissimulato dal mozartismo».
Mozart?
«Proprio lui. Pensa a una figura clown come Hercule Poirot. Il suo aspetto comico è la mossa mozartiana con cui Agatha Christie introduce un tocco di leggerezza apparente, di geometrica divagazione, che nasconde la parte dura e misteriosa del male. Volevo far vedere questa “lettera rubata” che è sotto gli occhi di tutti ma nessuno se ne accorge. Rileggere la Christie è stato come percepire quella materia oscura di cui non sappiamo quasi nulla e che regola occultamente le nostre vite».