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 2024  ottobre 14 Lunedì calendario

Esce il Quarto volume di M. di Scurati

Tobruk, 28 giugno 1940, Roma, 25 luglio 1943. La morte di Italo Balbo per fuoco amico nei cieli libici, la seduta del Gran consiglio del fascismo a Palazzo Venezia, le dimissioni di Mussolini nelle mani del Re e il suo arresto in una caserma dei carabinieri raggiunta a bordo di un’ambulanza. Nello spazio di tre anni, si compie il destino di un popolo, di un Paese, di una dittatura e di un uomo che ha scelto e deciso di trascinare l’Italia nell’immane mattatoio del secondo conflitto mondiale. Sulle Alpi marittime, sui fronti di Jugoslavia, Albania, Grecia. Nelle steppe del Don. “L’ora del destino”, appunto. Che è il titolo con cui Antonio Scurati ci consegna ora il quarto atto di quello straordinario romanzo documentario che è M. e di cui per oltre due ore, seduto al tavolo del suo studio, parla con la passione contagiosa e la cura che meritano i libri destinati a definire per sempre non solo l’opera di uno scrittore, ma l’immaginario di un Paese cento anni dopo gli eventi che ne hanno cambiato la Storia. Passata e presente. 
Il primo volume di “M.”, “Il figlio del secolo”, è del 2018. Immaginava che, a distanza di sei anni, la montagna che aveva deciso di scalare si sarebbe trasformata nel più importante lavoro sulla memoria collettiva del Paese? E dunque anche nel più potente e simbolico anticorpo contro l’aggressione populista delle destre alle radici e alla natura antifasciste della nostra democrazia? 
«Mi piace l’accezione con cui usa la parola memoria. La comprendo e la condivido, perché parliamo di una questione cruciale. E tuttavia io mi ostino a credere nella Storia. Perché se è vero che la memoria ha virtù civiche e democratiche, è altrettanto vero che negli ultimi anni è stata utilizzata in opposizione alla Storia, attribuendole un significato e una funzione identitarie, dunque di parte. Non potendo mettere in discussione la Storia, che è ricordo documentato, accertato, di ciò che è accaduto, si è scelto di rinnegarla, rivendicando la memoria o, meglio, le diverse memorie, con il loro tratto di soggettività partigiana. È un’operazione che hanno fatto tanto le destre estreme, non solo quella italiana, quanto la cultura figlia di un estremismo di segno opposto come il woke. Con l’obiettivo, appunto, di rifiutare la Storia come orizzonte civile comune. Per questo penso che mai come adesso, quando il fondamento storico della nostra democrazia viene messo in discussione, sia necessario appellarsi alla Storia. Una Storia che, se stiamo alle vicende che ho deciso di raccontare con M., condanna in modo inappellabile il fascismo. E non alcuni suoi atti, la sua fase finale, come si ostinano a sostenere alcuni esponenti della nostra attuale classe politica dirigente. Non è esistito un fascismo buono delle origini e del ventennio e un fascismo che ha sbagliato nel suo epilogo». 
E lei allora come definirebbe questo quarto volume di “M.”? Solo un romanzo o qualcosa di più, come evidentemente suggerisce l’aggressione sistematica che la destra ha condotto al suo lavoro di scrittore e anche alla sua persona?
«Sono un romanziere e scrivo romanzi, avendo la Storia come disciplina mentale. Questo quarto volume mi ha richiesto una ricerca molto complessa, direi pari a quella che richiese il primo. Ho affrontato una materia immensa e complessa come il secondo conflitto mondiale e per questo ho attinto indistintamente alla storiografia marxista, liberale, azionista e anche fascista. Con il mio lavoro non scopro niente, metto una cornice alla Storia. Per questo dico che M. è un romanzo documentario, ma scritto con il linguaggio e il passo della cronaca. Quanto all’aggressione condotta dalla destra nei miei confronti, io non ho cercato il conflitto e finché ho potuto mi sono sottratto. Non fosse altro perché ogni qual volta questa aggressione si consuma è sempre personale, implica regolarmente l’essere additato al pubblico disprezzo del popolo, perché il suo fine, qualunque sia la forza della critica, è cercare e offrire un trofeo. Detto questo, il tentativo della destra di liquidare gli intellettuali, siano scrittori, registi, artisti, è nella natura del potere populista. La caratteristica del populismo è l’identificazione tra popolo e leader e dunque ogni forma di critica del potere va stroncata perché antipopolare. Oltre al fatto che sia il populismo fascista di cento anni fa sia quello sovranista di oggi sono accomunati dalla ripulsa per le élite, siano queste tecnocratiche, economiche o intellettuali. Una patologia che purtroppo è propria della destra italiana più che delle altre destre europee». 
La destra sostiene che tutto questo fa parte della battaglia per la conquista dell’egemonia culturale nel Paese. 
«Che nel nostro Paese l’egemonia culturale sarebbe della sinistra è un falso. L’egemonia culturale italiana, almeno dalla seconda metà degli anni ’80, la detiene il berlusconismo, che l’ha imposta con la cultura e sottocultura delle sue televisioni commerciali. Non a caso chi porta al governo gli eredi del fascismo è Berlusconi. Quindi questo sedicente tentativo di conquistare l’egemonia culturale in realtà non è né più e né meno che un passo ulteriore lungo quella direttrice impressa a metà degli anni ’80. Ed è anche un passo di lato, con il popolo trasformato in massa, in una torsione illiberale che certamente non apparteneva al berlusconismo delle origini. Provo a dirla in un altro modo: ciò che si sta prospettando non è, come viene detto, un’egemonia culturale di destra o, più banalmente e come pure sarebbe legittimo, la costruzione di condizioni che favoriscano o incoraggino la fioritura di forme di espressione figlie di un pensiero di destra da mettere in competizione con forme di pensiero o arte antagoniste. È, al contrario, la ricerca di un’egemonia della destra politica sulla cultura. Che deve dunque controllare e conculcare. Cercano non il potere della cultura ma sulla cultura. Basta pensare all’occupazione sistematica delle istituzioni culturali del Paese con nomine che definirei familiste (nel senso che conta soltanto la famiglia politica di appartenenza) o alla sciagurata uccisione del cinema italiano, giustiziato con una legge sul tax credit il cui folle presupposto ideologico è che il cinema italiano sia di sinistra e i suoi registi dei comunisti».
Torniamo a “L’ora del destino”. Rispetto ai primi tre volumi, nel racconto della tragedia della guerra c’è un’interessante variazione: l’uso del punto di vista di chi quella guerra ha già raccontato in passato. Penso alla voce che lei dà nelle pagine del libro a Mario Rigoni Stern, che fu testimone oculare della tragedia dell’Armir sul Don dandole eternità con il suo “Il sergente nella neve”, e penso ai diari di Paolo Caccia Dominioni sulla battaglia di El Alamein.
«Nel racconto degli anni centrali della Seconda guerra mondiale volevo restare fedele all’impianto dei primi tre volumi di M. E dunque mantenere saldo il punto di vista del fascismo. Intendendo naturalmente per punto di vista la prospettiva dello sguardo di chi narra e non certo l’adesione al suo impianto ideologico. Per farlo mi sono sobbarcato l’onere di raccontare tutti i fronti che videro impegnata l’Italia: Francia, Russia, Albania, Grecia, Jugoslavia, che è poi il fronte più dimenticato, perché il più osceno. Dove la nostra guerra di aggressione assunse le forme della pulizia etnica. E dunque, proprio per mantenere il punto di vista di chi, con l’uniforme dell’esercito aggressore, combatté su quei fronti, ho attinto agli scritti del sergente Mario Rigoni, a quelli del colonnello Caccia Dominioni. E non solo. Anche ai racconti della guerra di Albania di Giancarlo Fusco. Ho preso quelle pagine straordinarie e ne ho operato delle riscritture, in una sorta di calco e di omaggio a chi, nella tragedia della guerra, combattendo, ebbe la rivelazione di ciò che il fascismo era sempre stato. Perché la guerra, anche e soprattutto agli occhi di chi nel fascismo aveva creduto, fu questo: non un errore del fascismo, ma lo svelamento della sua natura».
Ritiene che nella testa di Mussolini la scelta della guerra non fosse mai stata in discussione? In fondo, ancora nel 1934, Margherita Sarfatti è negli Stati Uniti per accreditare il duce e il fascismo italiano a Roosevelt. E anche l’Inghilterra di Churchill sperò fino a un certo punto di potersi guadagnare l’amicizia di Mussolini.
«No. Penso che non lo fu. Mussolini, messo di fronte al bivio tra disconoscere la sovrastruttura magniloquente della sua retorica e della retorica bellicista su cui era nato il fascismo e prendere atto dell’impreparazione etica e materiale dell’Italia e degli italiani ad affrontare la guerra, scelse consapevolmente la retorica. E nel farlo trascinò gli italiani, per giunta nelle vesti di aggressori, dalla parte sbagliata della Storia. La guerra non fu un errore. Fu una scelta consapevole. Direi di più: fu un inganno che, ieri come oggi, poggiava le sue fondamenta nella costruzione artificiale di un nemico. Che l’Italia e gli italiani non avevano, ma di cui Mussolini aveva assolutamente bisogno. E tutto questo con un’aggravante». 
Quale?
«Mussolini non solo non era tenuto in alcun modo a entrare in guerra al fianco della Germania nazista. Ma quel che è peggio conosceva più e meglio di chiunque altro il volto demoniaco di Hitler. Ora, che ci fosse una profonda affinità tra fascismo e nazismo è certo. Che il fascismo fosse stato un modello per il nazismo è altrettanto certo. Così come è certo che questa affettuosa riconoscenza non fu mai rinnegata da Hitler. E tuttavia, come racconto minuziosamente nella seconda parte del terzo volume di M. e in modo ancora più analitico in questo quarto, noi possiamo vedere che Mussolini fu a lungo tormentato, tra doppiezze e incertezze, se allearsi o meno con Hitler. Proprio perché ne aveva visto da vicino il demone. Insomma, ci sono stati molti momenti in cui Mussolini avrebbe potuto non legare il destino del popolo italiano a quello tedesco. Ecco perché ciò che lo rende colpevole in modo inappellabile è l’aver scelto di buttarsi nell’abisso pur avendolo avvistato. Non dimentichiamoci che, nel 1941, come racconto diffusamente, Mussolini, pur non richiesto da Hitler, pur non avendo né divisioni corazzate, né benzina per farle camminare, dichiara guerra a Unione Sovietica e Stati Uniti».
Italia e Germania erano legate dal patto d’acciaio.
«Certo. Ma il patto d’acciaio prevedeva l’ingresso in guerra dell’Italia solo in caso di aggressione alla Germania. E certo Unione Sovietica e Stati Uniti non avevano aggredito Hitler. Addirittura, nel dicembre del 1941, la dichiarazione di guerra dell’Italia agli Stati Uniti precede quella di Hitler. A questo proposito, riporto nel libro lo scambio epistolare tra Mussolini e Hitler in cui il primo, in coerenza con la tabe del calcolo e della furbizia, che erano una sua cifra distintiva, scrive cose che suonerebbero ridicole se non fossero drammatiche. E mi riferisco all’insistenza con cui, nonostante Hitler cerchi di dissuaderlo da un intervento italiano in Russia, Mussolini prova a convincerlo del contrario. Ecco perché, ricollegandomi a quanto dicevo prima, diventa per me importante lo sguardo con cui il sergente Mario Rigoni Stern partecipa e assiste alla tragedia della ritirata sul Don».
Perché il sergente Mario Rigoni in quella guerra aveva creduto?
«Perché il sergente Rigoni è un giovane nazionalista, militare di professione, eccellente combattente che, ancora poco prima della disfatta, manda a casa lettere dal fronte in cui emerge la fiducia nelle ragioni con cui il regime lo aveva mandato a combattere. Il sergente Rigoni Stern è il giovane soldato ai cui occhi la guerra si presenta con la forza dirompente della rivelazione. Al punto da farne da lì in avanti la missione della sua vita. Cosa che del resto accadrà all’Italia intera quando la guerra comincerà a devastarne le città, trasformando la fede nel fascismo in odio».
Anche in questo quarto volume di “M.” emergono le figure di gerarchi nel cerchio stretto di Mussolini che forse avrebbero potuto far pendere diversamente la bilancia della Storia. Perché non accadde?
«Nessun gerarca fascista avrebbe potuto influire in modo decisivo sulle decisioni di Mussolini o, addirittura, sostituirsi a lui. Anche perché nessuno ebbe mai il coraggio di contestarlo. Almeno apertamente. Penso a Italo Balbo, naturalmente. Ma penso anche a Leandro Arpinati. E questo perché? Perché erano uomini da poco? Niente affatto. Erano uomini di grandi doti. Ma erano fascisti. E il fascismo prevede un rapporto di assoluta sudditanza dei tanti al capo. In ogni fascismo c’è un solo capo e dietro di lui una massa di schiavi. E il fascismo italiano non ha fatto e non fa eccezione».
Alla mostra di Venezia è stata presentata la serie originale “M. Il figlio del secolo” che Sky ha prodotto con Fremantle, diretta da Joe Wright e che vedremo presto nel 2025. Se dovesse scegliere una sola cosa che si porta dietro da quella proiezione, quale è?
«Lo sguardo e i commenti di tanti ragazzi alla fine di quella proiezione. Come se di fronte ai loro occhi si fosse improvvisamente materializzata la rivelazione di qualcosa di sconosciuto, di quasi incredibile e di intollerabile. E questo mi fa pensare che quando dieci anni fa intuii che l’orizzonte di coscienza storica sul ’900 italiano rischiava di chiudersi, anche sulla scorta di almeno un decennio di revisionismo, non mi sbagliavo. M. è arrivato nel momento in cui la memoria storica e civile sul fascismo era a un passo dalla cancellazione, se ne preparava la riabilitazione e, in forme nuove e parziali, anche il suo ritorno. Probabilmente è questo che non viene perdonato né al sottoscritto né a M. dai cosiddetti postfascisti. Aver contribuito a tenere aperto quell’orizzonte di consapevolezza, viva quella memoria».