La Lettura, 14 ottobre 2024
Jeffery Deaver tifa per Kamala Harris
A metà dell’intervista ci scusiamo con il maestro del crime Jeffery Deaver – il cui ultimo romanzo, La mano dell’Orologiaio, sta per uscire in Italia da Rizzoli – per confessargli che in realtà il thriller più atteso è quello del 5 novembre, quando gli elettori americani decideranno chi, tra Kamala Harris e Donald Trump, sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti. Il romanzo delle elezioni americane è lungo e pieno di colpi di scena: anche qui andrà in scena una resa dei conti, come quella di Deaver tra il criminologo tetraplegico Lincoln Rhyme e la sua nemesi storica, Charles Vespasian Hale, noto anche come l’Orologiaio.
«Se potessi scrivere il finale del thriller elettorale – dice Deaver a “la Lettura” – farei prevalere la democrazia. In passato mi è capitato di votare per i repubblicani, oggi no, perché Donald Trump è impresentabile. Nel mio finale gli avversari accettano la vittoria di Harris e torniamo a vivere in un Paese in cui misoginia, razzismo, nazionalismo sfrenato appartengono al passato. Devo ammettere, tuttavia, che quello delle elezioni è uno dei thriller più intelligenti e meno scontati che siano mai stati creati, e lo dice uno che scrive gialli da 45 anni e che può indovinare l’esito di qualsiasi film o libro di questo genere dalle prime battute. Non si sa cosa succederà. Un giorno Harris è data in vantaggio, il giorno dopo sembra che Trump possa vincere».
La mano dell’Orologiaio si apre con «il magnifico panorama di Manhattan», interrotto improvvisamente da un allarme. Una gru sta per cadere su un cantiere edile. Provocherà morti e feriti – Deaver (1950) è eccezionale nel descrivere la catastrofe imminente. Non si tratta di un incidente. L’azione viene rivendicata dai terroristi del Kommunalka Project, una cellula che si rifà al programma urbanistico sovietico e che promette di sabotare una gru al giorno se l’amministrazione cittadina non si deciderà a convertire alcune proprietà di lusso in alloggi sociali. «La nostra richiesta è questa: la città istituirà un ente non profit; a questo ente trasferirà le proprietà che sono sulla lista e le convertirà ad abitazioni accessibili», si legge nell’email dei terroristi al sindaco. «Noi controlleremo l’andamento dei lavori tramite i registri governativi. Che la città di New York si prepari a una catastrofe ogni ventiquattr’ore fino a che l’ente non sarà creato e le proprietà trasferite. Il conto alla rovescia è iniziato». Dietro all’attacco, scopriamo, c’è proprio la mano dell’Orologiaio.
È a questo punto che entra in scena il nostro Lincoln Rhyme.
Il suo primo bestseller è stato «Il collezionista di ossa» (1997; uscito in Italia da Sonzogno nel 1998), in cui debutta proprio la coppia formata da Lincoln Rhyme e dalla poliziotta Amelia Sachs, moglie e collega. Con «La mano dell’Orologiaio» arriviamo al capitolo numero 16. Nonostante i suoi devastanti problemi fisici, Rhyme è sempre una roccia. Che cosa lo fa andare avanti?
«La risposta alla sua domanda è: i lettori. Scrivo per i lettori, perché li rispetto immensamente. So che amano Lincoln Rhyme. Se un giorno le vendite caleranno, allora potrei considerare di fermarmi. Oggi è ancora un personaggio vitale».
La critica l’ha definito un capitolo cruciale. È d’accordo?
«Sì, assolutamente. Tutti i miei libri – 50 romanzi e un centinaio di racconti – offrono almeno due o tre grandi colpi di scena. Quando creo una storia che fa parte di una serie, come nel caso del cacciatore di taglie Colter Shaw, ho un arco narrativo specifico in mente, e voglio che il lettore rimanga il più possibile all’oscuro. Ho fatto debuttare l’Orologiaio nel 2006 con La luna fredda. Sapevo già che sarebbe apparso nelle future avventure di Lincoln Rhyme. Ma chi ha già letto il romanzo ha ragione: qui c’è una svolta importante».
Si parla di paura collettiva in questo libro, come in «Solitude Creek» (2015), dove un assassino a piede libero scatena il panico a un concerto, in California, o ne «Il giardino delle belve» (2004), che ha al centro l’ascesa di Hitler nella Germania nazista. Di che cosa ha paura oggi l’America?
«Di Donald Trump. Premetto che i miei libri non parlano di politica. Ma una delle cose che mi piace mettere in luce è il fatto che oggi, in America, permangono minacce ai nostri valori fondamentali. La democrazia, per esempio, l’inclusione, l’umanità, la comprensione, la gentilezza. E Donald Trump rappresenta l’antitesi a questi valori. Non temiamo solo un uomo, ma temiamo l’antitesi a un certo modo di interpretare la vita».
Da scrittore, provi ma immaginare lo scenario in cui Trump torna alla presidenza. Molti analisti dicono che l’età del tycoon (78 anni) pesa sulla corsa verso la Casa Bianca: confonde nomi, eventi, parla molto più a lungo e in modo più confuso rispetto alle prime due campagne presidenziali.
«Trump sembra molto confuso. Fa collegamenti che non hanno alcuna logica. Mente ogni volta che apre bocca. Dice che a Springfield gli immigrati mangiano cani e gatti, una bufala enorme, pericolosa. Se fosse rieletto avremmo un presidente che cerca dichiaratamente vendetta. Ha detto che metterà in prigione i suoi oppositori, incluso Joe Biden. Forse anche la stessa Kamala Harris. Secondo J. D. Vance, il suo running mate nel ticket presidenziale, Trump vuole deportare 25 milioni di immigrati clandestini fuori dal Paese. Ce ne saranno al massimo 11, forse 15 milioni. Molti di loro, la maggior parte di loro, pagano le tasse. Puoi pagare le tasse anche se non sei un cittadino statunitense. Se qualcuno vive negli Usa illegalmente ma ha un figlio nato in America, questi ultimi sono automaticamente cittadini americani. Trump ordinerebbe la deportazione di genitori di bambini piccoli, che resterebbero qui da soli perché non si può deportare un americano. Ritirerebbe poi qualsiasi aiuto all’Ucraina, che diventerebbe un bersaglio facile per i russi. Potrei continuare all’infinito. La sua presidenza rappresenterebbe una svolta oscura per la nostra democrazia».
E se invece vincesse Kamala Harris, che America sarebbe?
«Kamala Harris sarebbe una solida via di mezzo, una democratica progressista. I repubblicani sostengono che sia marxista, anche se non hanno idea di chi fosse Karl Marx. Non hanno mai letto Engels e Marx. Non sanno cosa sia Il Capitale. Non sanno che è la critica a un modello economico-politico e non un modello di Stato totalitario, alla 1984. Nessuno in America è marxista. Forse abbiamo una dozzina di comunisti (ride). Spero che Harris si aggiorni un po’ sugli affari esteri, non ha grande esperienza in quel campo. Deve circondarsi di persone competenti, di tecnocrati. Detto questo, accolgo con favore una possibile presidenza Harris. Ha in mente un’agenda sociale molto solida, norme valide per chi acquista casa per la prima volta, per persone che diventano genitori per la prima volta, crediti d’imposta per i figli. Anche molti repubblicani sono stanchi della follia che Trump rappresenta. Confido che il 5 novembre la democrazia e i valori americani prevarranno».
Elon Musk sarebbe un perfetto «cattivo» in un thriller, non trova?
«Non so molto di Musk. Una volta ho noleggiato una Tesla, solo per provarla, e mi è piaciuta. Non uso X più di tanto, quando si chiamava Twitter era molto più utile e sicuro. Sono un po’ preoccupato dalla mancanza di moderazione dei contenuti e dei messaggi che vengono veicolati. Musk rimane comunque un personaggio affascinante. Il problema è che se il tuo cattivo è troppo sopra le righe diventa poco credibile. È il caso di Musk, tanto stravagante quanto ricco, ma poco letterario».
C’è un tema di giustizia sociale ne «La mano dell’Orologiaio». Gli Stati Uniti, un Paese ricchissimo con un’ingente quantità di poveri, riusciranno mai a raggiungerla?
«L’America è un Paese in cui l’innovazione e la capacità di farsi strada da soli sono sempre esistite e continueranno a esistere. Abbiamo una società classista, costruita artificialmente, a differenza dell’Inghilterra. Puoi arrivare qui senza un soldo e farti strada verso l’alto. Il capitalismo è un grande livellatore. Sono un po’ scettico quando sento qualcuno lamentarsi perché un amministratore delegato della Silicon Valley guadagna 500 volte quello che guadagna un operaio. C’è un motivo se guadagna quei soldi, ha creato prodotti che a loro volta hanno creato lavoro per altri».
Come giudica il passo indietro di Joe Biden?
«Se qualcuno venisse da me e dicesse “Jeff, stai invecchiando, dovresti andare in pensione, per il bene di tutti”, sarebbe molto difficile da accettare. Affronterei un’enorme mancanza nella mia vita. Non oso immaginare che cosa significhi per una persona con quel ruolo. Biden era animato dalla genuina convinzione che avrebbe potuto tenere Trump fuori dalla Casa Bianca per un altro mandato. Ma era chiaro a tutti che non sarebbe potuto andare avanti, anche prima dell’ultima disastrosa performance in tv. Tra poco sarò in Italia per incontrare i miei fan. Dovrei tornare negli Stati Uniti il giorno dopo le elezioni. Mi chiedo se avrei dovuto estendere il biglietto. Ma poi penso che il popolo americano ha superato tutto, e sarà pronto anche a questo verdetto».