La Stampa, 14 ottobre 2024
Emanuele Trevi si racconta
Pecora e fortunato. Sono le due cose che dice di essere Emanuele Trevi, critico letterario e scrittore, Premio Strega nel 2021 con Due vite: le cose che più spesso mette alle fine delle frasi, dove si mettono i perché. «Quello che più mi piace fare, la mia estasi assoluta, è camminare tra la folla, diventare indistinguibile e assomigliare a tutti: forse perché sono una pecora», dice a La Stampa mentre esce da un corso sul romanzo che ha appena tenuto a CreaVità, il centro di espressione di sé che ha fondato Chiara Gamberale, scrittrice, sua ex moglie e ora grande amica. È la domenica prima della Fiera di Francoforte, molti scrittori italiani stanno facendo la valigia ma lui no. «Io non parto. Lo avevo detto quando c’è stato quel pasticcio su Roberto Saviano, escluso per ragioni ridicole e poi invitato per ragioni ancora più ridicole. E come me moltissimi altri, che però poi hanno cambiato idea e così a non partire, tra gli invitati, siamo rimasti solo io, Sandro Veronesi e Francesco Piccolo, che siamo molto amici e anche un po’ pigri».
La fiera comincia mercoledì. Martedì, Trevi torna in libreria con Invasioni controllate (Ponte alle Grazie), il libro che ha pubblicato nel 2007 con grande successo: era una lunga conversazione con suo padre, lo psicoanalista junghiano Mario Trevi, al quale ha dedicato il suo ultimo libro, La casa del mago, uscito l’anno scorso. Nel 2007, lui aveva 43 anni e suo padre 83, gli si mise davanti e gli chiese della sua vita e del suo lavoro: «Mio padre era molto conosciuto e apprezzato, ma io volevo renderlo più pop». Venne fuori una conversazione intensa sull’analisi e la vita, e, più in trasparenza, sull’essere padre e l’essere in figlio, e, come in tutti i libri di Trevi, sull’essere intellettuali. Andò a ruba a lungo, poi scomparve dalle librerie. Ora viene ristampato per via del successo di La casa del mago di cui, in fondo, Invasioni controllate è il prequel, o solo l’inizio, la prima parte.
Mario Trevi ha avuto molte vite: è stato albese ed anconetano, compagno di scuola di Fenoglio e amico di Fellini, partigiano e fante decorato al valore, allievo di Ernst Bernhard e insegnante, pittore velleitario, povero e ricco, marito di una neurologa, Eleonora Trevi D’Agostino e, per suo figlio, un mistero, amato e venerato. E, soprattutto, è stato allievo dello psicoanalista (e astrologo) Ernst Bernhard, che ha fondato tutto il suo lavoro sul distacco dalla famiglia.
Trevi, discostarsi dalla strada immaginata da una madre e da un padre è per forza la scelta giusta?
«Bernhard dice: quello che hanno costruito i tuoi genitori per te, necessariamente non va bene per te. E questo è un dramma profondo della vita perché quella costruzione nella maggior parte dei casi viene fatta per amore, quindi è difficilissimo rifiutarla e ribellarsi. È molto più semplice ribellarsi alla ingiustizia repressiva di un regime che a quello che ci viene lasciato in eredità, però è necessario farlo, serve a trovare la propria misura, anche se non è detto che sia migliore di quella che ci viene lasciata».
Lei lo ha fatto?
«Certo. Ed è stato difficile».
Sarebbe stato più facile se fosse stato meno amato?
«Non credo. È un processo difficile e inevitabile anche per un ragazzo che cresce adesso, nelle nostre famiglie trendy, aperte e liberali».
Qual è la cosa più importante a cui è stato educato?
«Il culto del lavoro. I miei genitori votavano Pci e hanno insegnato a me e a mia sorella che il mondo non ci doveva niente, perché il mondo è durissimo: è fatto di forze e non di desideri».
Si smette di crescere?
«Ho 60 anni e una percezione di me e della mia vita ancora molto infantile: mi sembra di non essere adeguato e di non aver imparato a scrivere al meglio. Forse perché ho in antipatia la saggezza, che ha un aspetto di acquisizione permanente che non mi interessa. A me piace la vita in quanto errore, tentativo. Sono stato molto amico di Raffaele La Capria, che è riuscito a rimanere un ragazzino: a cent’anni voleva capire le cose, aveva un atteggiamento di apprendistato verso la scrittura e lettura. Una volta mi chiese: “Cosa dovrei ancora leggere?”. Aveva 98 anni. Risi e gli risposi: “Ma che te frega ancora?”. Poi, però, gli consigliai Vita e destino di Grossman e lui me ne fu gratissimo, quando lo lesse. Il suo entusiasmo mi commosse: per lui c’era ancora qualcosa che poteva essere utile e bello conoscere. Mio padre era come lui. Ho scritto con entrambi un libro intervista».
E con chi si è lasciato andare di più?
«Credo di aver conosciuto di più La Capria che mio padre».
Quando nel libro parlate del transfert, lei non gli chiede se gli sia mai capitato di innamorarsi di una paziente.
«Certo che no. Io e mio padre avevamo rapporti all’antica. Sono un ragazzo degli anni ’60: noi obbedivamo e di certe cose non parlavamo con i nostri genitori. E le prendevamo, tanto e male. E non era un bene. In generale, niente è meglio di com’era prima».
Si è sentito amato da suo padre. Ma supportato?
«Mi diceva: se non lavori sodo, finirai a mangiare alghe. Ogni volta che vado al giapponese, noto sempre che le alghe sono tra i piatti più cari nel menù, e mi dico: mi sono guadagnato un privilegio che secondo mio padre sarebbe stato un fallimento. E sorrido».
Qual è stata la fatica più grande di intervistarlo?
«Metterlo fuori dalla sicurezza e, allo stesso tempo, rispettarlo, non invaderlo. Ed è un limite del libro, e Chiara (Gamberale, ndr), che gli trovò il titolo perché è una titolista eccezionale, me lo disse subito: non ero riuscito a tirargli fuori tutto, ero stato troppo accorto. Ricordo che mentre facevo Invasioni controllate, leggevo Il duca nel suo dominio, il libro intervista di Capote a Marlon Brando: ammiravo la maleducazione di Capote, la totale mancanza di rispetto che aveva per il suo intervistato, perché solo così riuscì a tirar fuori a Brando, che si arrabbiò moltissimo, la storia della madre alcolizzata. Io ho fatto l’opposto, anche perché mio padre era molto perplesso, titubante, e io non volevo ulteriormente complicare il nostro patto».
Alla fine le disse bravo?
«No. Ma credo fosse contento».
Le ha mai detto «Ti voglio bene»?
«No. Era una cosa implicita. E per me non è un rimpianto. Ho trovato la sua misura e mi sono adeguato. Tanto con lui quando con La Capria, e a entrambi ho chiuso gli occhi quando sono morti».
È vero che quando si perdono i genitori si prova anche sollievo?
«Più passa il tempo e più mi mancano. Dovremmo organizzare la vita al contrario e poter avere i genitori quando invecchiamo. Di certo, però, quando sono morti ho registrato un grande incremento di energia creativa».
Suo padre dice che i pazienti più difficili sono quelli più colti.
«Sulla psicoanalisi tutti hanno una opinione perché gira un lessico divulgativo (si usano parole come complesso, narcisismo) e in studio arrivano con una conoscenza fai-da-te che non hanno quando vanno dal dentista. E invece dall’analista bisognerebbe arrivare nudi. Un certo livello di inconsapevolezza è profondamente legato alla possibilità di avere esperienza, che altrimenti è tutta anticipata».
Perché si dice sempre che andare in analisi è doloroso?
«Non lo so. Io ci sono andato con grande piacere e ne ho tratto beneficio, anche se non credo di aver risolto niente».
Perché ci andava?
«Per esempio perché faticavo a dire di no».
Scriverà un libro su sua madre?
«Ne sto scrivendo uno su mia nonna Giuseppina, che a 88 anni si è innamorata di un conte».
Le donne la interessano di più o di meno degli uomini?
«Mi ha sempre colpito un insegnamento di Cristo nei Vangeli gnostici che dice che prima di morire dobbiamo realizzare il maschio e la femmina dentro d noi».
Che significa per lei femmina?
«La possibilità di moltiplicazione dei significati».
Materno e femminile coincidono?
«Il materno è una prerogativa del femminile, ma la maternità è una funzione della vita e un padre che si trovi a crescere un figlio da solo può fargli tanto da madre quanto da padre. Questo è sempre successo anche se adesso i conservatori la fanno passare come una moda californiana inventata negli anni ’80».
Dice Mario Trevi: il discorso produce le censure. Emanuele Trevi si censura?
«Sono vissuto in un contesto in cui sono sempre stato invitato a dire come la pensavo, ma credo che la censura sia un aspetto dell’espressione, e non un’alternativa. Mi spiego: nella collettività ci sono due poli opposti, il poter dire e il non poter dire. Nell’esistenza individuale, i due piani si confondono. Nel mio lavoro, poi, la censura ha un valore artistico e serve a non soffocare l’immaginazione del lettore con un eccesso di confessione».
Cos’è l’amore?
«Un sentimento imperfetto che non sempre ha una capacità di durata ed è per questo che non si può sostituire alla società, che giustamente produce valori che hanno garanzia di durata maggiori del sentimento soggettivo».
Cos’è la famiglia?
«Mi piace l’idea di far coincidere il concetto di famiglia con la rete che si costruisce attraverso l’amore».
Che differenza c’è tra fiction e autofiction?
«Che Harry Potter non lo incontrerai in Paradiso, e io spero molto che il Paradiso esista. Le persone reali di cui hai scritto, invece, sì»