La Stampa, 14 ottobre 2024
Gino Cecchettin dice che anche lui era patriarcale
«L’esempio dei genitori vince su tutto. Serve un’educazione all’altruismo, dove non si tolleri nessuna forma di violenza dei confronti di qualsiasi altro tipo di persona. La scuola, poi, arriva dopo».Gino Cecchettin, in dialogo con il vice direttore de La Stampa Gianni Armand-Pilon nell’ambito del festival «Women and the city», ancora una volta premette: «Non sono uno scrittore. Sono solo un papà che ha voluto fare un ultimo regalo a sua figlia, una ragazza fantastica. Sono qui perché cerco di farla rivivere in qualche modo, e questo è l’unico modo che ho per farlo».Cecchettin, che famiglia era la sua?«Patriarcale. Quando penso alla mia infanzia mi chiedo se mio padre fosse patriarca, e la risposta è sì, tantissimo. Per esempio, chi aveva il compito dell’educazione era mia madre. Mio padre si sentiva esentato, salvo per le punizioni corporali. Invece l’educazione è un lavoro che devono portare avanti entrambi i genitori».Poi ha perdonato suo padre?«Sì, quando sono diventato anch’io papà. Ho capito che mi voleva bene ma che aveva a disposizione mezzi per educare diversi dai miei. È cresciuto in un contesto in cui mio nonno diceva a mia nonna: “Taci tu che sei una donna”. Mio padre ha respirato questo».Rispetto ad altre epoche c’è una maggiore consapevolezza sul tema della violenza sulle donne. Qualcosa sta migliorando?«Stiamo progredendo come società ma c’è ancora tanto da fare. Noi – io e mia moglie – sicuramente abbiamo peccato nei primi tempi, siamo stati anche noi patriarcali. Ci abbiamo lavorato tanto. Per questo servono i seminari e soprattutto il dialogo con i giovani».Da ragazzo, quali erano i modelli?«Sono cresciuto con stereotipi di maschio che non sono più sostenibili. Stallone, Rambo, James Bond che paragona le automobili alle donne. Alla fine non mi sono ritrovato nel ruolo di maschio alpha, forse non ne avevo il carattere. Non puoi risolvere sempre tutto con la forza, alla lunga è estenuante e ti porta alla solitudine».Nel suo libro Cara Giulia scrive: «Io ero normale e nel mondo normale certe cose non succedono». Queste cose sembrano non capitare mai a noi, finché non succedono.«Noi conducevamo una vita tutto sommato normale, non pensi mai a queste vicende. Quando le leggevo sul giornale non mi sentivo toccato, finché poi non mi è capitato e mi sono chiesto: perché a me?».Che risposta si è dato?«I miei legali mi hanno detto che i femminicidi capitano in tutti gli strati sociali. Il patriarcato è pervasivo perché ci siamo dentro, e questo riguarda tutti i Paesi del mondo. Lo stiamo studiando con il team della Fondazione Giulia».Può accadere a tutti.«Per questo non dobbiamo sentici esenti dall’affrontare il problema. Le forme di violenza non sono solo femminicidi, ma ce ne sono altre di più sibilline. C’è la violenza verbale, i modi di fare, che forse sono quelle che fanno più male».Come fare a sensibilizzare gli altri uomini, per far capire che il patriarcato è un problema per tutti?«Prima di tutto mantenendo un dialogo costruttivo. E poi, ognuno di noi deve modificare il nostro linguaggio, stando attento a ogni singola parola. Anche nelle persone più illuminate c’è sempre quella frase sessista che sembra innocua, ma che i giovani poi metabolizzano».Per esempio?«Dire a un bambino “Tu sì che sei un uomo” non è costruttivo, dà l’idea che un uomo sia molto meglio di una donna».Domanda intima. In questa vicenda suo figlio Davide è rimasto un po’ in ombra. Come mai?«Ha preferito stare in disparte perché ognuno vive il dolore a modo proprio. Io rispetto la sua scelta e cerco di stargli vicino. Però entrambi, lui ed Elena, sono soci fondatori della Fondazione».Di cosa si occuperà la Fondazione Giulia?«Faremo formazione nelle scuole tramite professionisti, per capire non solo cos’è la violenza di genere, ma anche la sessualità e l’emotività».Che ruolo ha la politica in tutto ciò? Può aiutare, anche dal punto di vista normativo, ad affrontare il problema dei femminicidi?«Con la Fondazione stiamo lavorando in modo autonomo, cercando finanziamenti da sostenitori e aziende per fare formazione. La politica può potenziare la formazione degli insegnanti, per esempio. In realtà non ho ancora pensato a come possa agire, non è il mio ambito»