La Stampa, 14 ottobre 2024
Coloni nel nome di Dio
Ytzhar (Cisgiordania occupata). Yehoshua Gelbart cammina lungo la strada sterrata all’estremità dell’insediamento di Ytzhar, in cui vive. Ha il suo M16 in spalla, si ferma a salutare i soldati che a loro volta lo salutano affettuosamente. Poi guarda verso la valle, a trecento metri c’è la comunità palestinese di Asira al-Qibliya: «Hanno solo tre opzioni. Restare e accettare di essere ospiti dello Stato ebraico, andare via o la guerra». In queste parole è racchiusa la spinta dei coloni radicali che, come Gelbart, vedono nell’annessione della terra palestinese una risposta a un mandato divino.Gelbart ha 37 anni, si è trasferito a Ytzhar vent’anni fa con la sua famiglia perché suo padre, rabbino, era stato chiamato a insegnare in una delle tre yeshiva dell’insediamento. Suo padre, dice, voleva un Israele più forte e la forza, gli ha insegnato, deriva da due condotte: riprendere la terra, e fare figli. Gelbart ha dieci tra fratelli e sorelle e a sua volta ha già sette figli: «È la nostra risposta alla guerra e agli arabi. È il nostro modo di dire che vivremo qui e ci espanderemo. Espanderemo l’insediamento, la nazione, la popolazione».Quando parla di guerra non ne fa una metafora. Per lui, come per molti altri coloni nei territori palestinesi occupati, la presenza degli insediamenti e degli avamposti sulle colline è una linea del fronte: «Siamo gli occhi del Paese, siamo gli occhi dell’esercito, da qui possiamo vedere Tel Aviv, Netanya, Ashkelon. Siamo lo scudo delle città israeliane per proteggerle dagli arabi».È un fronte, spiega capovolgendo la realtà, perché intorno agli insediamenti ci sono i villaggi e le comunità palestinesi che ingiustamente reclamano diritti su una terra che Dio ha destinato agli ebrei e che agli ebrei deve tornare, tutta intera.Gelbart è cresciuto e ha studiato nella yeshiva Od Yosef, è lì che ha incontrato Zvi Sukkot e ne è diventato amico. Poi ha cominciato a lavorarci e oggi ne è amministratore. Il suo ufficio è vicino ai dormitori dei più giovani, poi ci sono anche lezioni per gli studenti sposati. I numeri, dice mentre paga gli stipendi nel suo ufficio, danno ragione al loro progetto di espansione.Sono sempre di più le famiglie ultra ortodosse che chiedono di trasferirsi a Ytzhar, e anche per questo è necessario fare spazio, prendere più terra, cacciare più palestinesi. Quando suo padre si è trasferito lì c’erano solo 10 famiglie. Oggi ce ne sono 400. Ognuna con quattro, cinque, dieci, alcuni quattordici figli.I giovani delle collineGelbart, come Sukkot, è stato un “giovane delle colline”, per lo più adolescenti e giovani che, in varia misura, rifiutano l’autorità dello Stato e vivono uno stile di vita rigorosamente basato sulla Torah in quella che considerano una frontiera sionista. Crescono nel desiderio comune di ripulire Israele dai non ebrei e fanno di questa convinzione la base della guerra quotidiana che combattono in Cisgiordania. Il potere dei “giovani delle colline” è cresciuto molto negli ultimi vent’anni. Alla base delle loro azioni c’è il tradimento del 2005, cioè il disimpegno da Gaza che ha provocato una rottura generazionale nel movimento dei coloni e alimentato la convinzione che fosse necessario appropriarsi delle cime delle colline in Cisgiordania. Occupazioni sotto forma di avamposti che si trasformano in veri e propri insediamenti, con la stessa condotta da decenni, con qualsiasi governo sia stato al potere in Israele, di sinistra, centro, destra: stabilire un presidio illegale per il diritto internazionale e anche per quello israeliano che alla fine si espanderà in un insediamento riconosciuto con il sostegno dello Stato. Per anni, i coloni radicali hanno portato a termine quelli che chiamano “attacchi price tag”, significa che per ogni avamposto demolito dall’esercito israeliano, i giovani delle colline si vendicano contro i palestinesi. Sentono di essere stati chiamati alla realizzazione di una missione divina per reclamare la Terra Santa promessa da Dio, una terra che si estende dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo e persino dall’Eufrate al Nilo, nella visione più estrema del Grande Israele e per sostenere le loro tesi usano testi religiosi che inquadrano gli insediamenti e la loro espansione, così come la crescita demografica, come un mandato biblico. Uno dei più noti sostenitori del “mandato biblico” è Nati Rom, colono che si descrive così: un pioniere nel cuore di Israele, Giudea e Samaria. Rom vive nell’insediamento di Esh Kodesh, che in ebraico significa “fuoco sacro”. La sua missione è «espandere l’impronta ebraica un villaggio alla volta». Per lui, come per Yehoshua, la Cisgiordania è una linea del fronte, e la loro presenza una battaglia, destinata a continuare fino ai confini del Grande Israele: «Continueremo oltre i confini, oltre le montagne della Samaria, è parte della redenzione», ha detto in una recente intervista.I coloni e la guerraYehoshua Gelbart pensa che la guerra continuerà per molto tempo, sia a Gaza che in Libano e pensa anche che il 7 ottobre sia stata «un’opportunità per espandere la presenza degli ebrei in Giudea e Samaria».«Come ebreo ortodosso – continua – penso che tutto arrivi da Dio, l’ho detto anche ad alcuni amici che il 7 ottobre è un disegno di Dio».Per questo crede che le guerre a Gaza finora, le guerre degli ultimi vent’anni, siano stati «piccoli conflitti», in cui Israele era costretto a fare un passo indietro spinto dalla pressione internazionale. Oggi Gelbart pensa che il Paese abbia imparato la lezione e che sia essenziale andare fino in fondo. A Gaza, in Libano, in Iran. E naturalmente sulla sua linea del fronte, la Cisgiordania occupata. Pensa anche che il governo sia troppo tenero a Gaza, che dovrebbe agire con più aggressività per spostare le unità e i battaglioni in Libano.«Ce l’ha insegnato Sharon. Se provano a spararti contro, tu spara nella loro direzione, non importa chi c’è intorno». Cioè non importa se ci sono civili, così come in Libano non importa se c’è una forza internazionale di interposizione, Unifil.«Tutti nel mondo devono sapere che è una guerra e che se lanci un missile a Israele devi sapere che nel giro di un’ora noi distruggeremo quell’edificio o quel quartiere, con tutti dentro. Questo è secondo me uno dei problemi in questa guerra: siamo troppo timidi».A metà pomeriggio, finito il lavoro nella yeshiva, prende le figlie a scuola. Sempre con il suo M16 in spalla e la pistola nella tasca posteriore dei pantaloni le porta al parco e poi a casa, dove giocano, mangiano.Davanti a loro spiega che anche i bambini “arabi” dovrebbero avere una casa, ma lontano «nei Paesi antisemiti che hanno tanto spazio e possono dividersi qualche milione di persone, magari convincendoli con un po’ di denaro».Tanto, conclude, prima o poi accadrà. Si convinceranno che se vogliono vivere è meglio andare via, perché la guerra, per loro, è già persa.«Alla fine è tutto molto semplice, in guerra ci sono dei vincitori e dei vinti. Chi vince prende la terra. Chi perde muore o se ne va».