la Repubblica, 14 ottobre 2024
Fosco Maraini, fotografo dello spirito
Il Capodanno del 1937 Fosco Maraini si trova a Misurina per sciare. Ha portato con sé la sua attrezzatura, in particolare gli scarponi avvolti in un giornale. Gettando i fogli spiegazzati in un angolo della stanza s’accorge d’un trafiletto presente su uno di quelle pagine: il professor Tucci, celebre orientalista, sta per partire per il Tibet dove condurrà delle ricerche per molti mesi presso le popolazioni locali. Fosco ci riflette tutta la notte, poi al mattino decide di scrivere a Tucci offrendosi come fotografo per quel viaggio. Ha venticinque anni e ha già scattato immagini di montagna, di cui è appassionato, mentre altre istantanee le ha prese durante un viaggio sulla nave scuola della Marina “Amerigo Vespucci”, dov’era imbarcato come maestro d’inglese dei cadetti.Fosco proviene da un ambiente artistico: il padre, Antonio, è un noto scultore con incarichi governativi, ad esempio alla Biennale, e la madre, Yoi Crosse, è una scrittrice. Tre anni prima ha vinto un premio: una macchina fotografica Leica IIIa al terzo concorso fotoradiofonico Ferrania. Tornato a Firenze Fosco trova una lettera di Tucci che lo convoca. Comincia così tutto insieme: la sua carriera di fotografo, la ricerca antropologica sul campo e la conoscenza dell’antica cultura orientale, un inizio che ne contiene almeno tre, se non quattro, perché c’è anche il Fosco Maraini scrittore, autore di libri straordinari, in cui distillerà nel corso del tempo l’insieme delle sue esperienze di vita, comprese le diverse prerogative che il destino e il carattere gli hanno assegnato in sorte.Ora a Lugano al Museo delle Culture s’apre un’importante mostra delle sue fotografie (223) scattate nel corso di tutta una vita, accompagnata da un corposo catalogo edito da Skira: L’immagine dell’empresente. Fosco Maraini. Una retrospettiva, a cura di Francesco Paolo Campione. Divisa in quattordici sezioni, si parte degli scatti di montagna del 1930 per passare a quelli del Tibet nel 1937 e poi nel 1948; le campagne fotografiche nel Sud Italia (1946-1956), e in Grecia (1951), e quelle dedicate alle donne del mare giapponesi (1954), e ancora a Gerusalemme (1967), in Pakistan (1959), sul Karakorum e in altre montagne (1937 e 1958-59), fino ad arrivare ai ritratti di nuvole e ai colori del fuoco degli stabilimenti Falk (1956).Collocare Fosco Maraini nel panorama fotografico italiano non è facile, anche se sono evidenti i suoi debiti con il Futurismo, con la fotografia realista del Novecento, in particolare con il Neorealismo, non solo perché la sua attività visiva, compresa quella di operatore e regista, è strettamente legata alla sua attività di antropologo e di scrittore, ma perché la radice delle sue immagini è tutt’uno con il suo viaggio interiore, con il carattere e la particolare forma di creatività artistica che promana da lui, un tema che il curatore della mostra, Campione, aveva già messo a fuoco in un testo incluso nel Meridiano (a cura di Franco Marcoaldi) dedicato allo scrittore, e che ora amplia in un saggio del catalogo svizzero: «La manifestazione di un’anima che si muove alla ricerca dell’equilibrio interiore». Il carattere spirituale della sua fotografia è immediatamente evidente sin dalla prima sala in cui si entra; lì sono radunate le splendide immagini di montagna, compresequelle scattate in Tibet in due viaggi. Sono intrise d’una spiritualità che si manifesta attraverso l’elemento estetico, senza avere a che fare con quello che in Occidente chiamiamo “il religioso”. Maraini è un panteista, sia come fotografo che come antropologo, una persona che considera divina la totalità delle cose presenti del mondo e che identifica la divinità stessa con il mondo. Meglio: è un panteista in senso spinoziano, per cui la realtà di tutte le cose è divina in quanto unica, è la loro sostanza, la quale è Dio. Se si paragona una delle fotografie più intense della mostra, e della sua opera, il ritratto della bellissima principessa tibetana Pemà Choki Namgyal con la mano appoggiata alla fronte per schermare il sole (1948) allo scatto che fissa i due allegri monaci chiamati Etruschi d’Asia (1948), ci si rende conto che si tratta sempre di particelle di quel divino che Maraini persegue a volte in modo inconsapevole e a volte invece in modo deliberato. Basta passare dauna sala all’altra, o aprire a caso il catalogo, per ritrovare la medesima atmosfera, il medesimo atteggiamento mentale e fisico davanti a persone, oggetti, paesaggi, luoghi, cerimonie, spazi. Tutto questo però non spiega ancora la bellezza delle immagini, e la stessa forma spirituale, eppure concreta, che possiedono. L’ha reso esplicito lui stesso con un termine, empresente, coniato solo nel 1988. Tra gli infiniti presenti, ha scritto Maraini, «ce ne è uno che sta a ridosso della sottile e ignota barriera che ci separa dal futuro». Si tratta di quel momento che collega un attimo del passato a quello che sperimenterà chi leggerà quella pagina, oppure guarderà quell’immagine, nel futuro; si tratta di cogliere quell’attimo fuggiasco che i fotografi ben conoscono, ma con qualcosa in più: lì si materializza l’esperienza stessa contenuta nell’attimo. L’esperienza dell’autore appunto è ciò che rende così particolare la sua fotografia e anche la sua scrittura. Non tutte le sue foto, e neppure le sue pagine, ma moltissime sì. Un esempio riguardo la scrittura lo fornisce un passo contenuto in L’isola delle pescatrici(1954), libro di parole e immagini, oltre che un film, appena ristampato da La Nave di Teseo, là dove Fosco racconta la sua caccia al budo, un astice, nelle profondità del mare dell’Isola di Hèkura: una descrizione perfetta, essenziale, insieme semplice e bellissima, così simile alle immagini di questa mostra. Il segreto del fotografo Fosco Maraini è sintetizzato da Gian Carlo Calza nella prefazione al libro sulle donne Ama, le figlie delle onde: gli scatti, come le pagine di Fosco, si svolgono in una dimensione che si situa fuori dalle misure consuete del tempo: «Essi costituiscono una sorta di filo d’Arianna che può riportare alla realtà archetipica ed eterna ove la vicenda si svolge e continua a svolgersi in illo temporeproprio grazie a come è vissuta e rievocata dall’autore». È l’incontro miracoloso tra il tempo sacro e il tempo concreto di vita, un dono prezioso che gli dei hanno consegnato a quel giovane venticinquenne in partenza per il Tibet, senza che lui l’avesse chiesto, affinché lo custodisse il più a lungo possibile. Cosa che gli è perfettamente riuscita.