Corriere della Sera, 14 ottobre 2024
La nazionale di calcio israeliana, in guerra, sola e sotto stress
«Nessuno può capire la nostra situazione fino in fondo». Dor Peretz è il capitano di una squadra in esilio, che nessuno vuole davvero. E ha l’animo pesante come i suoi compagni, alcuni dei quali, come il 19enne Nikita Stojanov, hanno sulle spalle poche partite da professionisti e hanno l’aria un po’ spaesata alla loro prima trasferta. Si fa presto a dire che quella di Israele è una squadra abituata a giocare sotto pressione, per motivi di sicurezza e per l’ostilità di una parte del pubblico avversario. Ma quella di oggi è la prima serata in uno stadio «vero» e potenzialmente ostile dal 7 ottobre 2023: la squadra di Tel Aviv da allora ha sempre giocato in Ungheria, grazie all’aiuto del premier Orbán, a parte un paio di partite fra Kosovo e Andorra. Nella periferia di Budapest, dove gioca le gare in casa davanti a un pubblico abbastanza scarso ma partecipe, Israele prova a sentirsi una squadra normale. Ma qui la sua solitudine si vede dalle facce tese dei protagonisti, consapevoli di giocare in uno stadio blindato, come l’hotel dove la squadra è arrivata ieri mattina.
Nei controlli di sicurezza della vigilia, mai così capillari, l’attenzione è alta già dall’uscita dell’autostrada al punto che un’auto con tre giornalisti a bordo ha visto spuntare una pistola della polizia, in allerta per il lento avvicinamento del veicolo. «Vediamo tutto, sentiamo tutto, ma poi ogni cosa per noi passa in secondo piano al momento della partita – spiega il c.t. Ran Ben Shimon alzando le spalle con un sorriso nervoso – vogliamo solo fare del nostro meglio per continuare a crescere: quello che non possiamo controllare, non ci deve interessare. Se il pubblico sarà ostile saremo ancora di più accanto ai nostri ragazzi».
Peretz è un centrocampista talentuoso, anche se un po’ lento. Ha giocato una stagione nel Venezia dove ha imparato a fare lo spritz e «a vestirsi alla moda»: adesso ha l’espressione seriosa e le guance scavate forse dal digiuno dello Yom Kippur di sabato, ma ha voglia di spiegare come si sente la sua squadra: «Lavoriamo per trovare la nostra strada, ma non c’è un’atmosfera positiva. Non è semplice giocare a calcio con tutto quello che succede, ma abbiamo il privilegio di fare qualcosa di buono, di dare un po’ di orgoglio e felicità ai cittadini israeliani. Per almeno due ore dobbiamo tenere dentro di noi le sensazioni che proviamo ed essere concentrati sul campo: dobbiamo giocare per il nostro popolo, non solamente per noi».
Israele si sente sotto pressione, come spiegano i pochissimi giornalisti al seguito, anche perché si aspetta uno stadio pieno e potenzialmente ostile: i biglietti venduti finora però sono 12 mila, meno della metà della capienza dello stadio. E, con la manifestazione pro Palestina prevista nel pomeriggio in città e il lungo filtraggio dei tifosi, chissà se le parole del governatore del Friuli-Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga (Lega), serviranno a far capire che questa è un’occasione per il territorio: «Un’istituzione non può negare il patrocinio, indipendentemente dall’avversario, altrimenti sarebbe una discriminazione importante» sottolinea. Il riferimento è al patrocinio prima negato dal sindaco di Udine Alberto De Toni (centrosinisra) e infine dato solo a titolo personale. Un fatto che dà un assaggio del clima «che non è di gioia, come avremmo preferito – chiosa il c.t. Spalletti –. Penso che ci siano molti israeliani che non vogliono la guerra e noi dobbiamo convincere sempre qualcuno che questa è una cosa che deve finire». Per Israele, che in Belgio non ha potuto giocare per motivi di sicurezza, dopo Udine ci sarà Parigi, fra un mese. Se questa è una tappa di media montagna, quella è la vera cima da scalare. In solitudine.