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 2024  ottobre 14 Lunedì calendario

Biografia di Paolo Del Debbio, raccontata da lui stesso

Paolo Del Debbio, è vero che lei ha scritto il suo ultimo libro, «Siamo tutti filosofi senza saperlo», nell’abbazia di Vallombrosa?
«Sì. Da ragazzo ho studiato un anno dai benedettini a Roma, dove incontrai il bibliotecario generale. Da allora ogni estate mi ritiro nell’abbazia per una decina di giorni. È a più di mille metri, fa fresco, i monaci sono miei amici, e la biblioteca è meravigliosa. Il luogo ideale per pensare e scrivere». 
Nel suo romanzo «Il filo dell’aquilone» il padre Maestro della certosa di Lucca, quella dell’eccidio nazista, dice che «le abbazie sono fuori dal mondo, ma sono il cuore del mondo». 
«Cacciari scrive nel suo ultimo, meraviglioso libro, Metafisica concreta, che la filosofia va oltre tutto ciò che è dicibile e tangibile. Le abbazie sono gli spazi privilegiati di questa dimensione del mondo che non si vede, ma che è la più importante». 
Chi è per lei Cacciari? 
«Dopo la scomparsa di Severino, Mathieu, Reale, Massimo Cacciari è il più importante filosofo italiano vivente». 
Lei scrive di detestare l’espressione «prendila con filosofia». 
«La filosofia è il contrario della leggerezza. Pone una domanda continua sul senso di quello che fai. Si occupa del tutto, della persona, e della vita della persona che affronta il tutto. È irrequieta, tormentata. Incapace di accontentarsi di ciò che si è compreso, convinta che ci sia sempre qualcosa che si può comprendere in più». 
In che senso siamo tutti filosofi senza saperlo? 
«Perché tutti ragioniamo su quel che ci accade. E lo dimostro raccontando sei storie di persone che, senza accorgersene, arrivano alle stesse conclusioni dei più grandi filosofi, da Epicuro a Sartre, da Tommaso d’Aquino a Kant. È un tentativo di mettere insieme la parte narrativa e quella speculativa». 
La prima è una storia drammatica. Un bambino, Calogero detto Gero, perseguitato dal padre mafioso. Come l’ha scoperta? 
«Mi ha colpito un libro sulla psicologia mafiosa. Ognuno di noi ha una personalità e un ruolo: a volte coincidono, altre volte il ruolo si mangia la personalità; e la persona vive senza essere se stessa. Nella mafia è la legge: devi abbandonare qualsiasi sentimento, ti insegnano ad ammazzare il primo uomo, qualsiasi parte di te stesso viene definita dal tuo ruolo». 
E Gero? 
«Il padre e il fratello sono mafiosi in galera, la madre omertosa e sottomessa. Lui però si sente diverso. Decisivo è l’incontro con un cane randagio, Pippo. Il padre non vuole che il figlio si leghi a un animale, perché teme che diventi debole, che sviluppi sentimenti vietati dal codice mafioso. Così manda un picciotto a portarglielo via. Il cane viene addestrato ai combattimenti, destinato a morte certa, e Gero è costretto ad assistere. Ma qui avviene il miracolo: arriva la polizia, il cane per quanto martoriato è vivo; e porge la zampa a Gero, come per consolarlo. Quel gesto è determinante». 
Perché? 
«Perché il bambino intuisce di essere qualcuno, non qualcosa. Esattamente ciò che sosteneva Wojtyla. Poi il padre fa uccidere il picciotto che ha fallito, e manda un sicario ad ammazzare il cane. Gero riuscirà a proteggerlo per la seconda volta, restando ferito. Si salverà grazie alla polizia e ai preti, che lo accoglieranno a Verona e gli consentiranno di costruirsi in piena libertà la vita che gli si confaceva». 
Ma l’uomo è libero, come sostenevano i gesuiti? O la sua vita è predeterminata da Dio, come sostenevano i domenicani, o dal fato, come temevano i greci? 
«La disputa è secolare. È un mistero, che può essere risolto così: l’uomo è libero di scegliere; il fatto che Dio sappia già quello che l’uomo farà non significa che determini la scelta». 
Oggi noi scegliamo liberamente? 
«Oggi prevale la dimensione virtuale, e questo mi preoccupa. Perché la dimensione spirituale, metafisica della vita non è tangibile, ma è reale. Il virtuale invece è irreale». 
Anche lei come Gero fu accolto dai preti. 
«Ho passato nel seminario arcivescovile di Lucca due anni, tra i 16 e i 18. I più belli della mia vita». 
Perché? 
«Vengo da una famiglia umile. In seminario ho scoperto la filosofia. Ho letto tutto il possibile, compresa la Summa di san Tommaso. Due anni di studio matto e disperatissimo. Lì è nata una passione che non mi ha mai abbandonato». 
Voleva farsi prete? 
«Sì, ci avevo pensato. Mi attraeva quel clima di silenzio, di studio, di non dispersione. Poi però ho sentito il richiamo dell’amore fisico. E per tutta la vita mi sono dibattuto tra le due cose». 
Suo padre Velio è nato il 20 aprile, lo stesso giorno in cui è morta sua madre Lilia. 
«È una coincidenza che mi ha segnato. Magari non vuol dire nulla. Magari quando lei l’ha raggiunto in paradiso lui è rinato». 
Celebre un suo sfogo in tv: «Sul fascismo a me non dovete rompere i coglioni, sono figlio di un deportato». 
«Possono dirmi di tutto, possono attaccare le mie trasmissioni, non ho mai reagito alle critiche; ma sul fascismo no. Per me l’antifascismo e il rispetto del popolo ebraico non vengono da un’idea astratta ma dall’esperienza del mio babbo a Luckenwalde. Avevo sei anni. Grazie ai racconti di papà e di nonna, che aveva aiutato i partigiani, ho capito, fin da prima dell’età della ragione, quale fosse la parte che aveva ragione». 
Cosa le raccontò suo padre? 
«Nel campo di prigionia si moriva di fame, e i nazisti ostentavano le ciotole piene di carne per i cani. Come a dire che loro, gli italiani, erano cose; e se c’era qualcuno, erano gli animali. La reificazione, la riduzione degli uomini a cose, era stata già denunciata da Marx. I nazisti la realizzarono scientificamente». 
Cos’altro le raccontava suo padre? 
«Lui e i suoi compagni reagivano facendosi sempre la barba, e facendola agli ebrei di passaggio verso i campi di sterminio, rischiando le botte delle SS, che agli ebrei avevano calpestato gli occhiali. Il babbo diceva che potevano togliergli tutto, financo la vita, ma non la dignità. Pure il mio babbo, come Gero, dimostrava di essere qualcuno, non qualcosa». 
Anche l’università lei l’ha fatta dai preti. 
«Ho avuto la fortuna di frequentare due università pontificie, Santa Croce e l’Urbaniana. Gli insegnanti erano straordinari. Ora pure quelle stanno andando un po’ giù». 
Quando entrò in Fininvest? 
«Gina Nieri, che sarebbe diventata mia moglie, mi presentò a Fedele Confalonieri. Lui disse: “Abbiamo bisogno di gente che ha studiato e che pensa. Non so bene cosa farle fare. Intanto la prendo, poi vediamo”. Sono stato il suo assistente per un po’ di anni. E nel novembre ’93 mi chiesero di comporre il gruppo che doveva scrivere il programma di Forza Italia». 
Confalonieri era scettico sulla discesa in campo. 
«Di più: era contrario. Come Gianni Letta. Pensava che ne sarebbero nati più problemi di quelli che si sarebbero risolti. Poi ha riconosciuto che aveva torto». 
E lei pensava di vincere le elezioni? 
«Non lo sapevo proprio. Avevo poco più di trent’anni, non avevo mai fatto politica se non al liceo...». 
Cosa votava? 
«Dal partito socialista in là». 
In là verso destra? 
«Verso sinistra». 
Comunista? 
«Radicale. Non credevo nella Dc. Avevo conosciuto don Gianni Baget-Bozzo, che diceva: l’unità politica dei cattolici li ha deresponsabilizzati, privandoli di pensiero». 
Baget-Bozzo era nel gruppo. 
«Con Urbani, Martino, Ricossa. C’erano grand commis come Pio Marconi, che veniva dal Csm, e Gianfranco Ciaurro, ex segretario generale della Camera. Ci diedero una mano anche Piero Ostellino e Marco Pannella. Il confronto con i livelli di adesso è imbarazzante». 
Guardi che la sua trasmissione, come altre di Rete4, sono accusate di aver favorito l’ascesa prima di Salvini poi della Meloni, cioè di una destra diversa da quella berlusconiana. 
«Mia mamma diceva: la farina si fa col grano che c’è. Io ho fatto talk-show politici. Si poteva non dare spazio a Salvini in quella fase di crescita? Si poteva non dare spazio alla Meloni, che peraltro se lo è fatto da sola? Mi hanno accusato pure di favorire il grillismo; ma come potevo non intervistare Di Maio e Di Battista? I movimenti politici vanno colti, come avrebbe detto Alberoni, allo stato nascente. Ho avuto ospite la Schlein, che si è trovata benissimo». 
E i No Vax? 
«Rivendico di averli ospitati; anche perché dall’altra parte c’erano i Pro Vax. Io faccio la par condicio tutto l’anno. Mi hanno rimproverato pure perché mostro le baby gang. Ma se ci sono le baby gang sarà mica colpa mia?». 
Par condicio o no, la sua trasmissione è di destra. 
«La mia trasmissione “Dritto e rovescio” è la più seguita dai ceti popolari, dagli operai. Che votano un po’ da tutte le parti». 
Lei è stato assessore alle periferie a Milano con Albertini. 
«Da allora cerco di andare nelle periferie ogni giorno, anche se ora facendo pure una trasmissione quotidiana è più difficile. Il mio genius loci sono i mercati ambulanti». 
Berlusconi come lo ricorda? 
«Non solo per la genialità, ma per un’altra cosa, ancora più rara. Di solito uno pensa, l’altro organizza, il terzo realizza. Lui faceva tutte e tre le cose: gli veniva un’idea, organizzava il modo di realizzarla, e la realizzava». 
Qualcuno dice che la vera opposizione alla Meloni sono i fratelli Berlusconi. 
«Entrambi lavorano dalla sera alla mattina sulle aziende. Pier Silvio ha avviato una fusione internazionale. Se scendesse in politica, lascerebbe l’operazione in mezzo al guado». 
Si può influire sulla linea anche senza scendere in politica. Marina ha detto al Corriere che sui diritti si sente più in sintonia sulla sinistra. Forza Italia potrebbe stare in una maggioranza diversa? 
«Tutto è possibile. È normale che imprenditori importanti seguano con attenzione un partito fondato dal padre. Un’alleanza diversa può sempre nascere. Ma o la costruisce Mattarella in Parlamento, o deve presentarsi unita alle elezioni. Mi pare un po’ difficile. Alla luce anche di un’altra cosa». 
Quale? 
«Questo Pd. Qualcuno ha capito qual è la sua identità? Chi sono i suoi padri di riferimento? Qual è la sua cultura politica? Io no». 
Crede sempre in Dio? 
«Sì». 
E nell’aldilà? 
«Rispetto chi trova un senso alla vita pur escludendo l’aldilà. Rispetto moltissimo il laico che si impegna per la causa umana, per la giustizia. Per me sarebbe difficile vivere senza il pensiero di qualcosa di misterioso, di incomprensibile, che squarcia l’orizzonte della vita e lo amplia». 
E come immagina l’aldilà? 
«Non lo immagino. Un Dio conoscibile non servirebbe a nulla. Perché sarebbe uno come noi