Corriere della Sera, 14 ottobre 2024
I margini che ci concede Bruxelles
Nel ministero dell’Economia sembrerebbero circolare due certezze in vista del varo della legge di bilancio. La prima è che alla fine si troveranno, in molti modi più o meno piccoli, le coperture per una stretta che dovrebbe portare il deficit verso il 3,2% del prodotto lordo nel 2025. La seconda è che la Commissione europea dovrebbe accogliere la richiesta dell’Italia a estendere su sette anni, invece che concentrare su quattro, il percorso del risanamento affiancato da un piano di riforme.
Ciò che manca per ora, piuttosto, è una prospettiva su come la manovra si inserisce nella cornice europea delle regole di bilancio e di questa fase di crescita debolissima di tutta l’area euro.
Sul primo fronte c’è un aspetto che dovrebbe facilitare il percorso del governo nell’immediato, al prezzo di rendere più delicato quello del Paese in seguito: in base all’attuale interpretazione del nuovo Patto di stabilità, possono essere utili in parte anche le misure “una tantum” come quella che si profila per le banche o altri settori produttivi. Vengono dunque accettati anche interventi che non sono “strutturali” ma si limitano a tamponare il deficit per un solo anno. Questa tolleranza, in base al nuovo Patto di stabilità, è però limitata: si applica per le misure che vanno a riduzione del deficit del 2025, ma le “una tantum” non hanno rilevanza a compensazione dell’aumento della spesa pubblica.
Le regole europee richiedono infatti una correzione dei conti su più piani simultaneamente. All’Italia per esempio è richiesto di ridurre il disavanzo di circa 13 miliardi di euro (al valore corrente) in ciascuno dei prossimi sette anni e di contenere l’aumento della spesa espressa in euro, al netto di eventuali nuove entrate, in media all’1,5% sempre sui prossimi sette anni.
Ora, per qualche ragione, le “una tantum” saranno ammesse a riduzione del disavanzo; ma non a compensazione di eventuali aumenti di spesa.
Questa clausola apre la strada al governo per rinnovare il taglio del cuneo contributivo da 11 miliardi anche al 2025 e tamponarlo almeno in parte – di nuovo – con misure “una tantum”. Così l’approvazione della manovra a Bruxelles diventa più facile, a condizione però che arrivino poi coperture di bilancio permanenti nei prossimi anni (gli ultimi dell’attuale legislatura). In Italia l’effetto sarà invece di lasciare un’ambiguità riguardo a dove il governo cercherà risorse nel 2026 o nel 2027 e proprio questa incertezza non sarà certo utile a incoraggiare gli investimenti. Nel frattempo però le imprese colpite da nuovi versamenti “una tantum” per il 2025 – specie se nei servizi finanziari o dell’energia – cercheranno di scaricare subito a valle i loro nuovi costi fiscali sulla clientela di imprese e famiglie.
A Bruxelles piuttosto preme di vedere la cornice entro la quale il governo presenterà la legge di bilancio. La diluizione della stretta su sette anni dipende dalle riforme su fisco, concorrenza, amministrazione pubblica e giustizia che vanno indicate subito dal 2025 al 2031. Nella Commissione europea la prima impressione è che il “Piano fiscale strutturale di medio termine” che l’Italia ha presentato fin qui non basti. A Bruxelles si vuole valutare se le riforme vengono davvero fatte e se i risultati arrivano: l’attesa è che da Roma si precisino meglio il calendario degli interventi (semestre per semestre), il loro impatto quantitativo (per esempio sui tempi della giustizia), in modo da rendere il Piano soggetto a monitoraggio. Il mancato rispetto del calendario di riforme, in teoria, potrebbe infatti obbligare l’Italia a passare a una correzione dei conti a tappe forzate su quattro anni.
C’è poi l’impatto europeo generale di una stretta di bilancio nei Paesi più grandi proprio ora. La Germania è in recessione, le già ridotte previsioni di crescita su Francia e Italia sono soggette a revisioni in peggio, l’indice manifatturiero dell’area euro (Pmi) a settembre segna profonda contrazione ai minimi dell’anno. Ma i governi di Francia e Italia dovranno togliere risorse dall’economia, mentre la Germania non ne aggiungerà. Per questo si discute a Bruxelles di possibili piani di investimento comuni, soprattutto nelle reti elettriche europee. Per ora Berlino e gli scandinavi si oppongono. Potrebbe volerci un nuovo choc, per esempio l’elezione alla Casa Bianca e i nuovi dazi di Donald Trump o una guerra fra Israele e Iran, perché l’Europa batta un colpo.