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 2024  ottobre 13 Domenica calendario

Gli ucraini che combattono con la Russia

Al campo d’addestramento ricavato tra le pianeggianti praterie a perdita d’occhio del Donbass è appena rientrato il terzo allarme antiaereo nell’ultima ora, quando “Jak”, uno dei capi del battaglione Maxim Krivonos, piazza la sua fiaschetta sul tavolo accanto alla scodella di zuppa di patate fumante: «La sai quella dei russi e della vodka?», chiede. Barzellette sui russi e sulla vodka... forse un paio. Ma ce ne saranno milioni. Per la legge dei grandi numeri tanto vale rispondere di no: «C’è una borraccia con su scritto “veleno” al centro della tavolata dove sono seduti tre russi. Il primo la apre e la annusa. Sembra vodka. Allora pensa sia un bluff. Potrebbe essergli fatale, ma beve lo stesso e, dopo pochi secondi, muore. Il secondo russo, nonostante la sorte del commilitone, tentenna un poco ma poi non resiste al richiamo. Beve, e fa la stessa fine. Per il terzo la scelta ormai dovrebbe essere semplice. C’è scritto “veleno” e gli altri sono morti, quindi dev’essere veleno per davvero. Ma è russo, e quella roba profuma di vodka. Proprio quando sta per abbandonarsi allo sconforto gli viene il lampo di genio. Grida: “Aiuto, aiuto soccorsi”. E subito dopo beve pure lui».
Tutti ridono. Nessuno si cura del dettaglio mancante nel contesto: tra questi commilitoni barzellettieri non ci sono russi. Sono ucraini, solo che per loro non fa differenza.
Il battaglione Krivonos è nato da poche settimane e fa il paio con quello gemello intitolato a Bogdan Khmelnitsky, uomo-guida dell’Etmanato di Zaporizhzia che nel 1654 giurò fedeltà allo Zar Alessio I, e che di Krivonos era il capo. Per correlazione storica, prestano il nome a questi battaglioni composti interamente da prigionieri di guerra ucraini. Non prigionieri semplici, POWs. Ciò significa che prima di essersi arresi, o di essere scappati, o di essere stati catturati in trincea, combattevano con l’esercito di Kiev. Contro quello di Mosca. Poi però, anziché starsene in galera e magari sperare in qualche scambio, hanno scelto di continuare a combattere la stessa guerra, ma con le insegne opposte, imbracciando le armi contro i propri ex commilitoni.
FUOCO VIVO
Nella loro base, già raggiunta varie volte dalle bombe a grappolo americane e mai varcata prima dalla stampa generalista occidentale, i soldati colpiti da questa folgorazione pro-Mosca si addestrano principalmente negli scenari d’assalto e nelle battaglie in campo aperto. Droni kamikaze, lanciagranate leggeri e missili anti-tank agiscono in simultanea contro le carcasse d’acciaio piazzate a due-trecento metri di distanza; poco più in là, gli assaltatori si fanno largo a coppie, coprendosi a vicenda, armati di Ak-47; subito dietro, ai piedi di una collinetta usata come rialzo per tirare con gli Rpg, un cecchino lavora sugli obiettivi lontani un chilometro e oltre. Coperto da un telo mimetico, è praticamente invisibile. Il fuoco è vivo, i proiettili sono veri, e qualche missile anticarro esplode un po’ troppo lontano dal corazzato. Del resto, ci sono diversi giovani. Ma spunta anche qualche over 50. I più interessanti, per due ordini di ragioni.
La prima è il loro bug anagrafico. Pur non essendo veterani di nessuna guerra (troppo giovani per l’Afghanistan) sono cresciuti durante l’Unione sovietica e non hanno interiorizzato del tutto l’identitarismo ucraino deflagrato negli anni duemila. Allo stesso tempo, si sono realizzati nell’Ucraina indipendente, quindi sono artigiani, ingegneri e c’è persino qualche accademico. L’Euromaidan del 2014 non l’hanno vissuto con lo stesso furore degli studenti, dei militanti o dei nazionalisti. Pur sentendosi ucraini non vedono la Russia come un nemico esistenziale.
Ed ecco il secondo aspetto: hanno imbracciato un’arma solo dopo il varo dell’ultima ondata di mobilitazione introdotta da Kiev per combattere la carenza di riserve. In queste settimane l’Ucraina sta vagliando la possibilità di estendere il reclutamento forzato anche agli over 21 (fino ad oggi si era partiti dagli over 25). Le prime deroghe, però, avevano già colpito proprio loro: i brizzolati. Militarmente parlando, mobilitare la qualunque è l’unico modo per provare a tenere il “fronte dei mille” (è lungo mille chilometri e regge ormai da mille giorni). Tuttavia, è un’arma a doppio taglio. Perché, come confermano i report delle stesse autorità ucraine, le perdite, le diserzioni e le bandiere bianche tra le nuove reclute in alcune direzioni particolarmente sanguinose come quelle del Donetsk sfiorano l’80%. Fiutata l’insofferenza, da almeno un anno i russi hanno iniziato a far circolare la voce che chi si arrende verrà trattato con umanità, hanno inaugurato una hotline dedicata ai disertori e, ad alcuni di quelli che una volta passati al setaccio risultano meno compromessi con i battaglioni che Vladimir Putin intende «denazificare», offrono la possibilità di cambiare schieramento.
MOBILITAZIONE
Certo, non è che siano migliaia. Nella base del battaglione Krivonos lavorano un centinaio di soldati, esclusi quelli impiegati al fronte. Ma l’esperimento ha comunque il suo senso.
Le motivazioni che portano in dote i soldati che accettano di parlare (quasi tutti a volto scoperto) sono pressappoco le stesse: «Sia chiaro che non sto combattendo per la Russia, ma con la Russia», dice uno, nome di battaglia “Nemo”. Contro chi, ci affrettiamo a chiedere: «Il regime di Zelensky». Narrazioni a parte, la sensazione è che alla base di tutto ci sia qualcosa di diverso, più pratico: «Lo scorso anno avevo bisogno di lavorare – spiega un altro, “Snake” -, volevo fare l’operaio. L’ufficio di collocamento mi ha mandato in ospedale per un test medico e il giorno della visita mi hanno reclutato con la forza dicendomi: ecco, ora hai il lavoro. Appena arrivato al fronte di Donetsk, non ho neanche combattuto, sono stato catturato subito». «La mia storia è simile – interviene Maxim -, stavo scrivendo la tesi di dottorato. Per continuare mi hanno chiesto la registrazione militare. Ma non era una formalità, mi hanno mobilitato. Nel fronte di Donetsk sono stato 28 giorni in trincea senza rotazioni. Ho capito che il governo ucraino manda i suoi uomini al massacro. Così, in 4, abbiamo cambiato lato».
Le storie si ripetono, ma tra i militari ce n’è uno che proprio insiste per voler parlare. Si chiama Vladimir: «Vengo da Rivne – dice – e nella vita sono uno storico. Amo l’Ucraina. Sono un patriota, ma mi sono chiesto se davvero abbiamo bisogno di essere protetti dalla Russia. Il nostro è un Paese multietnico e multiculturale. Invece ci siamo ritrovati con due gruppi etnici messi gli uni contro gli altri. Il nostro nemico è ci ha fatto questo, sostenuto dall’Occidente».
Per Mosca, che alla mobilitazione forzata preferisce la forsennata spinta sul reclutamento di volontari, con la capitale ormai tappezzata di annunci pubblicitari in tal senso e la promessa di uno stipendio da 2500 dollari al mese, la formazione di battaglioni come il Krivonos è una manna dal cielo: aiuta a sopperire la scarsità di manodopera ed è inestimabile come operazione di info-war. Più la situazione per l’Ucraina diventa difficile, più il passaparola aumenta, più il telefono della hotline squilla.
MULTICULTURALISMO
Quello del multiculturalismo è un leit motiv tipico di quasi tutte le «armate di Putin». Come la famigerata Brigata Akhmat. Libero incontra un’unità di combattenti ceceni quand’è quasi il tramonto. Lo scenario è da film sovietico anni ’70. Senza protezioni e stesi a pancia a terra i soldati cercano di colpire i propri bersagli in mezzo a tempeste di fuoco. Un istruttore segue passo passo le mosse delle reclute e, di tanto in tanto, spara a terra a pochi centimetri da loro. Tanto per fargli capire che, nei teatri operativi, qualche pallottola torna pure indietro.
CROSSFIT RUSSO
A un qualsiasi comandante Nato verrebbero i capelli bianchi solo a pensarlo.
Davanti alla fila indiana, un piedistallo per il tiro con la mitragliatrice pesante NSV funge da nastro di partenza: da lì i soldati fanno circuiti completi sparando in piedi, poi in corsa, poi rotolando a terra. Infine, ripassano dal via. Il tutto dura una novantina di secondi, ma portandosi appresso quel diavolo da 25kg (più treppiedi e cinturone di munizioni) valgono come una sessione intera di crossfit.
Tra i kadyrovtsi però non ci sono solo caucasici: «Abbiamo kazaki, khirghisi, qualcuno viene dall’Europa, c’è persino un giapponese», dice il comandante, “Barnaul”. Senza dimenticare gli ex Wagner: «Certo, sono anche qui». Dopo la morte di Yevgeny Prigozhin la PMC si è divisa in vari tronconi: alcuni addestrano le truppe bielorusse, altri sono rimasti in Africa al soldo dei governi filorussi, altri ancora hanno ingrossato o le fila di insegne private del Donbass come la PMC Redut o quelle dei reparti ceceni appunto, schierati nei fronti di Lugansk e, ultimamente, nel contenimento dell’offensiva ucraina nel Kursk. Anche le Brigate Akhmat, in sostanza, sono ormai piccole Legioni Straniere. I ceceni, comunque, sono molto meno loquaci degli ucraini: «Dove combatto? Segreto militare. Da quanto sono qui? Segreto militare», rispondono in tanti. Ma non è vero. Semplicemente preferiscono far urlare le armi. Una cosa però uno di loro la dice: «Sì, tra noi ci sono anche mobilitati, ma io non combatto perché devo, combatto perché voglio. E non importa da dove vengo. Combatto per la Russia. E lo farò finché sarà necessario dando tutto affinché la guerra finisca prima possibile».
IL FRONTE DI KURSK
Ben più accurato è “Gaiduc”, soldato della “autentica” Brigata Internazionale russa: la Pyatnashka, composta all’inizio principalmente da abcasi. “Gaiduc” ha una lunga barba da imam ma curata come fosse un hypster di Camden Town. Non è né l’uno né l’altro: è un transnistro, fervente ortodosso, di stanza nell’assedio di Chasov-Yar: «Avanziamo piano perché ci sono 700 civili che ci aspettano in città. L’artiglieria ucraina sta perdendo vigore, la nostra no. Prenderemo la città, sebbene ora ci siano 2mila dei “nostri” che sono stati spostati a Kursk. Sa qual è la cosa divertente? Che dalle intercettazioni abbiamo riconosciuto gli stessi comandanti che prima combattevamo a Chasov-Yar. Abbiamo solo cambiato scenario, ma è sempre una faccenda tra noi». Se gli scontri nel Donetsk si risolveranno presto, secondo “Gaiduc” la guerra nel suo insieme proprio no: «Non faccio previsioni, ma vengo da Pridnestrovie (la Transnistria, Ndr), l’unico posto al mondo in cui russi e ucraini vivono ancora in pace. Credo che la Russia debba arrivare fin lì, quindi conquistare Odessa».
In quella guerra, che nel ’92 ha fratturato la Moldavia, combatté anche Eduard Limonov, idolo di “Gaiduc”, che al seguito dello “scrittore-guerrigliero” russo è stato un militante nazional-bolscevico. Nel 2002 per aver preso parte ad azioni anti-governative si è fatto 3 anni nella prigione centrale di Vladimir. Mitica per il suo regime duro. Per un naz-bol, è una sorta di passaggio iniziatico indispensabile: «C’era già Putin, ma la Russia all’epoca era pronta ad aprirsi allo stile di vita occidentale anche a costo di rinunciare alla propria sovranità. Limonov, che era un visionario, non poteva accettarlo. Sapeva che ciò avrebbe scatenato delle guerre».
Perché ora combatte per Putin, allora? «Perché i naz-bol sanno scindere tra patria e potere. Se la patria è in difficoltà combattono senza pensarci. E non lo facciamo contro gli ucraini...». Strabuzzo gli occhi. “Gaiduc” fa una pausa, mi vede interdetto, poi candidamente conclude: «Ucraino sono io, quelli lì sono solo golpisti».
Insomma: ci sono ucraini che si considerano russi, islamici che valutano Mosca la loro Umma e transnistri che si sentono ucraini. Sarebbe l’attacco perfetto per una barzelletta. Che in Occidente, però, non capirebbe nessuno.