La Lettura, 13 ottobre 2024
Sulle tracce di Maria Maddalena
La trama nelle prime pagine appare bizzarra. Ma non scoraggia, piuttosto incuriosisce, e il ritmo agile della scrittura sprona alla lettura. Un archeologo palestinese quarantenne residente in Cisgiordania ha in progetto di scrivere la biografia della Maria Maddalena biblica. Inizialmente pensa di poterne fare una ricerca su standard universitari. Sebbene sia musulmano, la sua formazione è laica, la storia del primo cristianesimo lo affascina. Da archeologo si è specializzato sulla Palestina romana ai tempi della predicazione di Gesù. Ma presto si rende conto di possedere ben poche evidenze scientifiche. Legge i Vangeli apocrifi, s’appassiona alle versioni tramandate in due millenni sul ruolo della Maddalena: meretrice, amante del Cristo, discepola fedele destinata a entrare nel circolo degli apostoli al posto di Giuda, ma poi esclusa dal «maschilismo» di Pietro? S’inoltra nelle diatribe teologiche, rimane personalmente offeso da quelle che definisce le «falsità» contenute nel Codice da Vinci di Dan Brown.
Si rende allora conto di stare scivolando nelle elucubrazioni e cambia genere: abbandona il piano iniziale e decide di scrivere un romanzo. La licenza poetica della creatività letteraria gli fornirà il materiale e lo stile per sopperire con la fantasia alla carenza di testi originali, di testimonianze credibili e prove archeologiche.
Proprio la svolta nel suo lavoro ci porta al cuore del libro. Con Una maschera color del cielo (Edizioni e/o) il quarantunenne Bassam Khandaqji intende tornare a parlarci dell’esperienza chiave del popolo palestinese dal 1948 a oggi: la Nakba, ovvero la «catastrofe», l’espulsione forzata e violenta di oltre 700 mila arabi dalle loro case al momento della nascita di Israele. Un tema oggi tornato all’ordine del giorno a causa dei massacri di decine di migliaia di palestinesi per mano delle truppe israeliane nella striscia di Gaza dopo il gravissimo eccidio commesso da Hamas il 7 ottobre 2023.
Per lungo tempo, dopo la dichiarazione d’indipendenza dello Stato ebraico nel maggio 1948, la propaganda israeliana ha fatto del suo meglio per occultare i massacri e la cacciata forzosa dei palestinesi, sostenendo che l’esodo era stato una libera scelta della popolazione impaurita o addirittura incoraggiata dai leader arabi a scappare in attesa del ritorno garantito da quella che era prospettata come l’inevitabile sconfitta delle forze ebraiche. Sono poi state le vittorie israeliane a generare l’effetto paradossale del ritorno della memoria della Nakba. La si voleva nascondere sotto il tappeto, ma intanto la narrazione della cacciata palestinese diventava con il trascorrere degli anni sempre più forte e radicata.
Il 1967 vide gli arabi israeliani rimasti nei loro villaggi dopo il 1948 ricongiungersi con i fratelli di Cisgiordania e Gaza, da cui erano stati separati con la guerra. Nel 1987 la prima Intifada, la grande rivolta nei territori occupati, portò alla rinascita dell’identità collettiva palestinese contro il molto più forte esercito israeliano, nonostante la crescita del movimento dei coloni ebrei. E adesso gli orrori dei trasferimenti forzati dei gazawi non fanno che perpetuare l’incubo di una Nakba bis, sia nella Striscia che in prospettiva anche in Cisgiordania.
Khandaqji soffre tutto sulla sua pelle. Nato nel 1983 a Nablus, ha solo 4 anni allo scoppio della prima Intifada, a 15 entra nel Fronte popolare per la liberazione della Palestina, il movimento marxista-leninista che rifiuta il radicalismo islamico di Hamas, ma ne condivide le strategie di lotta armata. Nel 2004, a soli 21 anni, viene arrestato e condannato a diversi ergastoli con l’accusa di avere partecipato alla preparazione di un attentato sucida che ha causato la morte di tre israeliani. Lo Human Rights Council dell’Onu ha messo in dubbio le prove: ne chiede la liberazione. Israele guarda dall’altra parte: è dal 1967 che i sistemi repressivi dell’occupazione vengono condannati dagli organismi internazionali, ma le conseguenze sono sempre state irrisorie.
Lui intanto scrive, non vuole abbrutirsi in carcere, studia per corrispondenza. Questo libro è stato scritto di nascosto in cella e i capitoli sono stati passati segretamente su «pizzini» ad amici e famigliari, che poi li hanno messi assieme e consegnati a un editore libanese, che ha pubblicato la prima versione araba del libro.
L’archeologo-scrittore del romanzo ha la sua stessa età e si chiama Nur Mahdi al-Shahdi. Un palestinese che ha le sembianze di un ebreo askenazita e ha imparato l’ebraico perfettamente. Il dettaglio è fondamentale, perché è proprio nella discriminazione sociale che crescono ingiustizie, disuguaglianze e razzismo. «In questo Paese gli accenti linguistici e i tratti somatici dettano i rapporti umani», osserva. Grazie al suo aspetto e alla padronanza della lingua ebraica, lui passa inosservato i posti di blocco militari dove i suoi famigliari vengono invece fermati. Nur si bea di questa immunità: non è un traditore, però ama l’illusione di poter vivere la sua pretesa identità ebraica muovendosi liberamente. E la cosa diventa più semplice quando, a una bancarella del mercato dell’usato di Jaffa, compra un cappotto di seconda mano e nel taschino interno trova la carta d’identità di Ur Shapiro, un israeliano residente a Tel Aviv e di età simile alla sua. La fa falsificare da amici specializzati nel modificare i lasciapassare per i pendolari palestinesi della Cisgiordania, che ogni giorno trovano lavori precari nelle aziende israeliane.
A questo punto matura il progetto di unirsi a una missione internazionale di ricerca archeologica intenta a scavare sulla piana di Megiddo i resti dell’accampamento della IV Legione romana, proprio dove si ritiene si trovasse il villaggio natale di Maria Maddalena.
Il piano gli sembra perfetto: il suo romanzo avrà un lungo capitolo sui villaggi attorno a Megiddo, non lontano dal lago di Tiberiade. Qui Ur e Nur giocano a rimpiattino e si sfidano tra gli scavi. Storia e memoria evidenziano le incompatibilità laceranti delle due identità. La vittoria di Ur comporta l’annullamento di Nur e viceversa. Nel gruppo di archeologi ci sono anche due amori potenziali, ma in lotta tra loro: una collega ebrea di Tel Aviv e un’araba di Haifa. Ur/Nur ascolta con forti sensi di colpa la narrazione sionista della «terra del latte e del miele redenta dal lavoro ebraico». Sono tutti alloggiati al kibbutz di Mishmar Ha-Emek, nel 1948 uno dei capisaldi da cui partì l’offensiva per scacciare i palestinesi della Galilea. Lui guarda sgomento il monumento eretto subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale alla memoria dei bambini ebrei morti nei campi di sterminio nazisti, che venne danneggiato da una bomba araba: le autorità del kibbutz non hanno mai voluto ripararlo per sottolineare la linea di continuità tra la Shoah e la lotta contro gli arabi. «I sionisti hanno inserito con forza l’Olocausto nella fondazione di Israele. Hanno sionistizzato l’Olocausto», scrive Khandaqji.
Ma il tema più doloroso è rappresentato dalle rovine nascoste dei villaggi palestinesi, che emergono di continuo attorno agli scavi. Si chiamino Lajjun, o Saraa, Magdala, oppure Abu Shusha, il nome cambia poco: nascondono vicende di fucilazioni, fosse comuni, espulsioni di massa senza possibilità di ritorno. Ur ascolta gli archeologi ebrei che usano e abusano la Bibbia per legittimare la loro presenza, ma allo stesso tempo Nur ricorda i racconti della Nakba sofferta dal padre, quando venne scacciato con altre decine di migliaia di civili da Lod, che una volta si chiamava Lydda, e da allora sino alla morte non dimenticò mai la sua piccola locanda nella zona del mercato, dove si diceva servisse il miglior caffè della regione. Di quel tempo, presso la loro catapecchia nel campo profughi in Cisgiordania, resta un piccolo carretto arrugginito che lui già da bambino sapeva di dover guardare con dolore. La memoria gronda nostalgia. Davanti alle foreste piantate a bella posta dai pionieri del kibbutz sulle rovine dei villaggi arabi, la narrazione di Nur s’impone sempre più su quella di Ur. Alla fine, la scelta di stare con la collega araba, nonostante le avances di quella ebrea e i vantaggi offerti dalla carta d’identità israeliana (che comunque sono effimeri, visto che dovrebbe presto fare quella elettronica e il suo falso verrebbe smascherato), diventa l’ovvia prevalenza della sua originaria identità. Le sue riflessioni ricordano Di fronte ai boschi, una short story del 1963 di Abraham Yehoshua, uno dei più noti scrittori israeliani morto nel 2022, che già allora descriveva imbarazzato la scoperta inquietante delle macerie dei villaggi arabi da parte di un giovane ebreo innamorato delle camminate nella natura.
Per l’intellettuale-carcerato Khandaqji scrivere è molto più che testimoniare, diventa un atto di resistenza. Possiamo immaginare le sue paure, le inquietudini nell’atto di affidare furtivamente i manoscritti a qualche parente durante i rari momenti di colloquio mensili. Sono ormai tante le generazioni di palestinesi cresciute nelle prigioni israeliane. E scrittori come lui stanno diventando numerosi. Nel libro cita Ghassan Kanafani, nato nel 1936, testimone, vittima-narratore della Nakba e ucciso dal Mossad a Beirut nel 1972. Fu Kanafani a sostenere che il sionismo politico era stato preceduto da quello letterario. Theodor Herzl, prima di predicare la necessità della creazione dello Stato ebraico, già alla fine dell’Ottocento fu giornalista e scrittore. Oggi Khandaqji, dal chiuso della sua cella, sta partecipando alla rifondazione intellettuale del movimento resistenziale palestinese davanti all’incubo di una seconda «catastrofe».