Avvenire, 13 ottobre 2024
Il rabbino sopravvissuto ad Hamas raccoglie le olive con i palestinesi
«Dai ulivo, rendi i tuoi frutti come limoni/ Dai ulivo, rendi i tuoi frutti come melograni». A intonare la melodia antica è Adam. L’ha imparata dal nonno quando, da bambino, lo accompagnava durante il tempo della raccolta. Il gruppo risponde in coro. Tutti, senza eccezioni, all’unisono – israeliani e palestinesi – ripetono la strofa in arabo, mentre insieme si arrampicano fra i rami per cogliere le olive, ormai mature. Sotto il cielo d’un azzurro accecante, nel campo di Ibrahim Altos l’atmosfera appare festosa, come vuole la tradizione per l’avvio della stagione. Di tanto in tanto, però, i partecipanti lanciano occhiate furtive alla grande torre di controllo del check-point, appena oltre la staccionata, lungo la Route 60. Quando due auto delle forze di sicurezza si avvicinano e gli agenti iniziano a scattare foto, il nervosismo aumenta: sanno che, come effettivamente accadrà, chiunque sia là, sarà sottoposto a imperscrutabili controlli per almeno un’ora al valico per rientrare a Gerusalemme.
«A quello siamo rassegnati. Speriamo non avvenga altro. Finora è andata bene. Ma di colpo può cambiare tutto», spiega, riparandosi in uno dei pochi punti d’ombra, Avi Dabush, direttore esecutivo dell’organizzazione “Rabbini per i diritti umani”. Ne fanno parte 165 volontari, in gran parte leader religiosi e studenti rabbinici delle differenti tradizioni dell’ebraismo. Quindici si trovano nell’uliveto situato alle porte di Jaba, a metà strada tra Betlemme e Hebron, a fare da “scorta” – disarmata – per la raccolta. Quella di Ibrahim è una delle quattro grandi famiglie che compongono il villaggio palestinese di 1.300 abitanti. Con i permessi di lavoro in Israele congelati da oltre un anno, i suoi 450 alberi di ulivo sono la chiave per andare avanti un altro inverno. Raggiungerli, però, non è facile nella cosiddetta Area C della Cisgiordania – sotto controllo diretto cioè dei soldati di Tel Aviv -: l’avanzata dei coloni ha trasformato questa porzione di Territori in un puzzle di isole non comunicanti. Jaba è una di queste. Il blocco di dieci insediamenti di Gush Etzion e l’opprimente muro di separazione israeliano, cingono la comunità in una stretta soffocante, isolandola dagli altri villaggi arabi. E soprattutto dai poderi agricoli e dagli uliveti intorno. Un terzo degli alberi di Ibrahim è, così, off limits perché situato dall’altra parte della barricata o pericolosamente vicino alla colonia israeliana di Bat Ayin.
«Là sparano e non vogliono mettere a rischio la vita dei miei familiari o di chi ci aiuta per delle olive», risponde Ibrahim ai volontari che si offrono di avvicinarsi alla zona. Oltre a quello dietro casa, questo terreno scosceso a ridosso del valico con i suoi duecento alberi è tutto quel che gli resta. Per questo non può permettersi di perdere la seconda stagione consecutiva. L’anno scorso, all’indomani del 7 ottobre, l’esercito di Tel Aviv ha centellinato al minimo la possibilità di raccolta «per ragioni di sicurezza». Almeno 96mila chilometri quadrati di terra sono stati letteralmente blindati secondo l’Ufficio Onu per gli affari umanitari (Ocha) con una perdita di dieci milioni di dollari. «In pratica, non mi hanno consentito di raccogliere accogliere quasi nulla», racconta, mentre prepara il caffè arabo scaldando il recipiente su un fuoco acceso con rami secchi. I nipoti – entrambi Muhammed, di 5 e 11 anni – osservano incantati i suoi movimenti decisi. «Ero impiegato a Bet Shemesh nel settore delle trivellazioni. Ora non ho più l’autorizzazione per andarci. Lo stesso i miei figli. Come facciamo a vivere? Vogliamo solo lavorare…Così ho chiesto aiuto ai Rabbini per i diritti umani». L’organizzazione, dopo aver esaminato la petizione, lo ha incluso nella lista degli agricoltori da accompagnare nella raccolta che, anche stavolta, si profila una corsa ad ostacoli. Le restrizioni dello scorso anno in prossimità del confine e degli insediamenti restano in vigore: la possibilità di permessi individuali verrà valutata solo dopo il 23 ottobre, al termine delle festività ebraiche. Non si sa, però, con quanta rigidità verranno fatte applicare. Al momento, è l’incertezza il problema principale. Durante tutti i giorni del prossimo mese, dunque, divisi in gruppi di una quindicina di persone, i volontari si recheranno in una serie di “punti sensibili” per proteggere con la propria presenza i contadini dagli attacchi dei coloni che, con la guerra, sono diventati ancora più aggressivi. Lo scorso autunno, l’associazione Yash Din ha documentato 113 attacchi violenti. Con la raccolta appena iniziata, l’Ocha ne ha registrato già dodici, per un totale di 32 palestinesi feriti e ottanta piante distrutte. «Mentre ci siamo noi è più difficile che episodi simili si verifichino. E anche l’esercito si tiene a distanza. Così i raccoglitori possono lavorare in pace. Dato che ci siamo, poi, diamo una mano», sottolinea Avi Dabush che, per arrivare puntuale di primo mattino, è partito nella notte da Ber Sheva, dove risiede. «Dove sono sfollato, in realtà. Fino al 7 ottobre vivevo a Nirim, uno dei kibbutz attaccati da Hamas». Quel giorno, per otto ore, fino a quando i militari sono riusciti a raggiungere la comunità, è rimasto barricato nel bunker insieme alla moglie, ai due figli e al cane mentre i miliziani, fuori, davano la caccia ai civili. Ne hanno ucciso sette, altri cinque li hanno catturati. «Tre sono tornati vivi, di due ci hanno restituito i corpi ad agosto», aggiunge il rabbino, che porta al collo la mostrina con la scritta “Bring back home”, “riportateli a casa”. Un anno e qualche giorno dopo il massacro vissuto in prima persona, Avi è a Jaba a raccogliere le olive insieme alla famiglia del palestinese Ibrahim.
«Ora stare qui è più importante che mai – dice quando gli viene domandata la ragione della sua scelta –. Lavorare per la giustizia è l’unico modo per avere sicurezza. Il 7 ottobre è stata la tragica dimostrazione. Chi propone la forza bruta come unica via – la “soluzione Gaza” -, va contro i valori della civiltà e della fede ebraica. Lo dico da patriota e sionista». La scelta del rabbino è di certo controcorrente. Il protrarsi di una guerra di cui non si vedono obiettivi né orizzonte, tuttavia, sta provocando un malessere crescente nella società israeliana.
«La maggior parte dei cittadini sostiene la necessità di una soluzione diplomatica», afferma. «All’indomani della strage, qualcuno è andato via dall’organizzazione. Alla fine, però, facendo i calcoli dodici mesi dopo, abbiamo notato che per ogni defezione ci sono state due nuove entrate», sottolinea la rabbina Dana Sharon mentre si sfila i guanti da lavoro, mostrando il braccialetto giallo simbolo della solidarietà con i rapiti da Hamas. Una delle “new entry” è Adam Rabea, il “cantore” della raccolta. «Sono il primo palestinese dell’organizzazione. Mai avrei immaginato di lavorare fianco a fianco con dei rabbini», ride l’attuale responsabile dei rapporti con le comunità della Cisgiordania per l’associazione. Adam, nato a Hizma 47 anni fa, ha militato nella resistenza armata nella Prima e poi nella Seconda Intifada e, per questo, è stato arrestato.
La reclusione e l’amicizia di Suleyman Khatib, fondatore di Combatants for peace, gli ha fatto decidere di cambiare strada. «Combatto ancora ma senza armi – sottolinea –. Quando ripercorro la mia storia, mi sembra incredibile. A lungo ho odiato tutti gli israeliani. Non sopportavo nemmeno di sentire la loro lingua. Da militante per la pace, invece, ho incontrato Michal, ebrea, e sette anni fa ci siamo sposati. Abbiamo una figlia, Alma, di quattro anni. Mentre la guardo, comprendo quanto i destini di palestinesi e israeliani siano inseparabili in questa terra fra il Giordano e il mare. Se gli uni, per assurdo, riuscissero a cacciare gli altri o viceversa, Alma resterebbe perché appartiene a entrambi i popoli. Lei è il futuro possibile».