il Fatto Quotidiano, 13 ottobre 2024
Shatila, il reportage – “Che Hezbollah ci protegga da Israele”
A un anno dalla strage del 7 Ottobre, l’eco di dolore del popolo palestinese è diventato troppo grande per rimane circoscritto nella prigione di Gaza. Ora si è diffuso in tutto il Medio Oriente espandendosi in modo capillare in tutta la regione. Come solo il male sa fare, ha attraversato i confini ed è entrato nei cuori delle persone aumentandone la voglia di vendetta, alla ricerca di una giustizia miope ma oramai troppo tardi da arginare. Da Khan Younis, Rafah, Jabalia, e gli altri campi palestinesi della Striscia, le lacrime delle donne rimaste vedove e dei bambini rimasti orfani raggiungono i paesi limitrofi alla ricerca di aiuto.
In Cisgiordania sono più di 750.000 i coloni che hanno invaso il territorio palestinese, cancellando l’utopia dei due Stati, aiutati dai quotidiani raid del Idf alla ricerca di miliziani di Hamas e della Jihad islamica nei campi di Tulkarem e di Jenin.
In Libano, dove l’esercito di Netanyahu alza quotidianamente il livello di conflitto con la potenza dei bombardamenti, è iniziata l’offensiva terrestre da più direzioni, non però senza perdite importanti fra le fila israeliane. Anche il nord, considerato fino ad oggi il posto più sicuro del paese, comincia a piangere le proprie vittime.
La famiglia di Al Alì è stata sterminata nel suo appartamento del quarto piano di un edificio nel campo di Beddawi di Tripoli. Al Said era un combattente della brigata Al Qassam, l’ala militare di Hamas, un’affiliazione che l’ha portato alla tomba insieme alla sua famiglia, la moglie Shaida e le sue due figlie Fatima di tre anni e Zeinab di un anno e tre mesi, uccisi da un drone durante il sonno. Oggi migliaia di persone piangono la loro morte lungo le strette vie dell’insediamento fino al cimitero, accompagnando i corpi delle due bambine nascosti nei lenzuoli bianchi fino alla sepoltura. Se vuoi la pace preparati alla guerra, è questa la filosofia di Bibi per rimanere in carica come primo ministro.
Morte preventiva, nel nome della difesa della Terra Santa. L’empatia è scomparsa, la pace è sempre più lontana e i più piccoli vengono uccisi, perché un giorno seguiranno le orme dei loro padri.
A Shatila, il massacro del settembre di 42 anni fa, non è stato dimenticato. Lo ricorda molto bene Zackaria, che ai tempi aveva solo 16 anni quando ha perso 13 persone della sua famiglia. Riuscì a scappare per nascondersi con due dei suoi cugini in una botola mentre fuori si compiva uno degli eccidi più violenti della storia. Esattamente dove si trova ora, ma con migliaia di persone morte a terra. “Non è cambiato nulla da allora, vogliono una nuova guerra civile. Destabilizzare il Libano e farci uccidere da soli, è questo l’obiettivo di Israele”.
Passa da un conflitto all’altro Zackaria, accusando sempre Israele e senza aspettarsi l’aiuto di nessun paese alleato. La sua vita, come quella di molte altre persone nella Regione, è un continuo peregrinare da una guerra all’altra alla ricerca della pace e scappa ogni volta che sembra essere raggiunta. Fuma compulsivamente in un buio caffè di Shatila mentre fuori il sole si fa spazio fra i grovigli dei cavi arrotolati sui pali della luce e i poster dei martiri e dei leader dei gruppi islamici: Yahya Sinwar si infila una pistola con silenziatore nei pantaloni mentre Ismail Haniyeh guarda negli occhi il suo avversario con il solito viso apparentemente pacato e la barba bianca appena rasata.
A pochi metri dai martiri del conflitto eterno, c’è la fotografia del carro armato in fiamme con miliziani di Hamas esultanti durante l’attacco a Israele del 7 ottobre 2023, dove 1.200 persone sono state uccise e 251 sequestrate. Anche Bilal Hassan è palestinese, così come la sua famiglia, arrivata in Libano nel 1948 durante la Nakba, l’esodo senza fine del suo popolo, che ne ha disgregato la società e infranto le speranze. Quando i campi palestinesi erano tende, prima di diventare insediamenti in muratura e poi ghetti. Hassan, con sua moglie e i due figli, è scappato ancora una volta, adesso dalla loro casa libanese di Baalbek per poi tornarci pochi giorni dopo. Il quartiere è stato bombardato, gli edifici intorno sono crollati, le finestre del loro appartamento scoppiate, e i muri rimasti presentano profonde crepe. “È meglio qui che da altre parti, ci abbiamo provato ma non sappiamo dove andare e quindi siamo tornati”, mentre i suoi due bambini giocano fra i calcinacci, Bilal spera che i miliziani di Hezbollah siano in grado di difenderli quando gli israeliani entreranno massivamente in Libano, “conoscono il territorio e si addestrano per questo momento da 18 anni”.