Il Messaggero, 13 ottobre 2024
Giorgia Meloni complottista, dall’estate dei veleni ai soliti sospetti
È cominciata subito, appena vinte le elezioni due anni fa e appena il governo Meloni ha preso il suo avvio, l’idea che «il nostro cammino sarà difficile perché – parola di Giorgia – ci vogliono tutti male. Non si rassegneranno mai al fatto che gli impresentabili, i figli di un Dio minore, i presunti fascisti hanno convinto la maggioranza degli italiani a votarci e ora governiamo noi. Dobbiamo stringere le cinture e sapere che ci attaccheranno in tutti i modi, con ogni mezzo, da dentro all’Italia e da fuori». Meloni è così. Non ha mai accettato che la contesa politica abbia una sua estrema durezza e non ha mai abdicato alla certezza, forse esagerata, che la destra sia osteggiata dai cosiddetti (ma esistono davvero?) poteri forti, dalle lobby internazionali collegate con la sinistra casereccia, da gruppi editoriali che non accettando il verdetto delle elezioni, ossia la voce del popolo, fanno macchinazioni, tramano, complottano, «mettono zizzania». E «c’è qualcuno che vuole buttare giù il governo», ha detto più volte la premier. Ha evocato la congiura per la presunta inchiesta, che non c’è stata, su sua sorella Arianna, messa nel mirino da «giornali ostili, sinistre e magistrati»e anche per la vicenda Sangiuliano-Boccia. E il «vogliono farmi cadere» è un tormentone tipico, magari non infondato, della retorica meloniana. Giorgia ha una convinzione granitica: «Siccome la sinistra non vince le elezioni, prova a prendersi la rivincita usando ogni mezzo possibile e immaginabile, dal gossip alla disinformazione, dagli attacchi personali alla delegittimazione politica e personale». E quindi – qui la critica è ai suoi – «dobbiamo essere irreprensibili proprio per contrastare questa pretestuosa strategia dell’odio». È questa concezione del tutti contro di noi che deve aver spinto Meloni a fidarsi praticamente di nessuno e a concentrare il suo sistema di potere in poche fidatissime mani. Che fungono da cintura di sicurezza perché non c’è dubbio che l’underdog che diventa regina attira una carica di stupore che si trasforma in antipatia profonda anche in certi settori del deep state e delle élites internazionali abituati a interloquire con la sinistra o con la tecnocrazia. Non certo con chi deriva dalla Garbatella o da Colle Oppio. Occhio per esempio la conferenza stampa di inizio anno: «In questa nazione qualcuno pensa di poter dare le carte, ma io non sono una che si spaventa facilmente». Così disse la premier, senza specificare a chi si riferisse. Ed è lo stesso meccanismo che ritroviamo in un passaggio consegnato da Meloni a Bruno Vespa (che l’altra giorno era da lei a Palazzo Chigi per il nuovo libro) nel volume «La grande tempesta»: «Ho dei nemici disposti a fare qualunque cosa per buttarmi giù». Chiamasi tutto ciò sindrome di accerchiamento, ansia da regia occulta. Che un po’, o tanto, è realtà e un po’ è fantasma. Perfino i figli di Berlusconi (caso Giambruno) complottano? Pare di no e Giorgia sembra essersene convinta. Ma la cospirazione vera o presunta degli altri, agisce come collante dei fedeli, e quindi va evocata di continuo. I «soliti noti» che impediscono di «fare la storia» alla destra di governo sono un topos narrativo. Così forte che, come nel caso della chat di FdI in cui si chiamavano i parlamentari in aula a Montecitorio a fare il blitz per l’elezione del giudice costituzionale Marini e qualcuno ha spifferato l’operazione, il complottardo viene cercato perfino all’interno di un’organizzazione che dovrebbe essere leninisticamente al servizio di Giorgia. La quale si ritiene una persona limpida, e lo è, in un contesto limaccioso, che c’è.