La Stampa, 13 ottobre 2024
I fanatici della Knesset
Alla fine di luglio del 2015 un gruppo di coloni israeliani incendiò la casa di una famiglia palestinese, i Dawabsheh, nel villaggio di Duma, vicino Nablus. Morirono tre persone, Ali, un bambino di 18 mesi bruciato vivo e i suoi genitori, morti in seguito alle ferite riportate durante il rogo. Al rogo è sopravvissuto solo il fratellino più grande, ustionato sul 60% del corpo.
Il vicino di casa della famiglia, Ibrahim Dawabsheh, raccontò di aver sentito le urla dei suoi vicini e, correndo sul posto, di aver visto due uomini in piedi sui corpi in fiamme di Reham e Saad, i genitori dei bambini. Erano i giovani coloni che avevano fatto irruzione nel villaggio. Erano i “giovani delle colline”. Poche settimane dopo, durante una festa di nozze, un gruppo di persone festeggiò la morte del bambino. Muniti di coltelli hanno pugnalato la foto del piccolo Ali Dawabshe. Tra i presenti Itamar Ben Gvir, attuale ministro della Sicurezza Nazionale, allora rappresentante legale dei coloni arrestati per l’assalto.
Nel 2018, durante il processo ai sospettati, i sostenitori dei giovani coloni hanno cantato fuori dal tribunale una canzone che recitava così: «Dov’è Ali? Non c’è nessun Ali. Ali è bruciato. Sul fuoco. Ali è sulla griglia».
Uno dei sostenitori dei diritti dei “giovani delle colline” era Zvi Sukkot, che oggi siede nella Knesset, il Parlamento Israeliano, come membro del partito Sionismo Religioso.
La Stampa lo ha incontrato a Gerusalemme, nel suo ufficio in parlamento.
È sprezzante, e ha imparato l’arte della diplomazia, ma i fondamenti del suo pensiero, le ragioni per cui è stato eletto, sono tutte lì. A partire dal futuro di Gaza: «Siamo pronti agli insediamenti certo. Siamo andati in guerra, abbiamo combattuto, abbiamo occupato, stiamo rimuovendo la loro presenza a Gaza. Il minimo che possiamo fare, una volta finita la guerra, è dare alle persone che Israele ha espulso la possibilità di tornare e vivere nella loro casa».
Quando parla di persone espulse da Israele, Sukkot fa riferimento alla macchia originaria che l’estrema destra sionista non perdona alla storia recente di Israele, cioè il disimpegno unilaterale di 21 colonie abitate da circa 9000 israeliani da Gaza nel 2005. Il primo ministro era Ariel Sharon.
Il governo Sharon aveva spiegato la decisione dicendo che avrebbe garantito la sicurezza dello Stato di Israele, in molti allora pensarono che in verità la scelta era dettata dalla necessità di concentrare le forze dei coloni in Cisgiordania. Gli ebrei più radicali si opposero strenuamente al disimpegno e da allora, ormai vent’anni fa, ritengono quella scelta una frattura non sanata. E sanabile solo rioccupando i territori dei palestinesi.
«Ora che abbiamo avuto la possibilità di tornare in guerra a Gaza abbiamo il dovere di dare alle persone che abbiamo ingiustamente espulso l’opportunità di tornare a casa. È stato fatto un errore nel 2005, la guerra lo sanerà», dice Sukkot.
Alla parola cessate il fuoco sorride ironico. E non stupisce, perché solo un paio di mesi fa, sollecitato dai giornalisti sulle sorti degli ostaggi aveva detto: forse non riusciremo a riportarli tutti indietro in vita. Come a dire che la continuazione dell’offensiva militare a Gaza non solo è per lui necessaria ma persino inevitabile, qualunque sia il costo umano che prevede. «Dobbiamo continuare a fare pressione sui palestinesi, per schiacciarli. Dobbiamo ripulire il Nord della Striscia. Combattere finché non eliminiamo tutti i terroristi. E poi fare lo stesso nel Sud. Finché non capiscono che non hanno alcuna possibilità di restare lì». Quando dice “fare pressione” intende bloccare gli aiuti umanitari, l’accesso di acqua e carburante, l’accesso alle strutture sanitarie. E quando dice “eliminare i terroristi” sottintende che non esista distinzione, in questa guerra, tra civili e combattenti.
L’argomentazione storica che porta a sostegno è la medesima di tutti gli esponenti dell’estrema destra sionista e dei loro sostenitori: «È successo nella Germania nazista. È successo in Giappone, con grande successo. La Germania era nazista, oggi non lo è più. E il Giappone, beh, ce l’ha insegnato l’Occidente come bisogna fare a vincere la guerra».
Zvi Sukkot ha 32 anni, è nato in una famiglia ultra-ortodossa nell’insediamento di Betar Ilit in Cisgiordania e si è unito ai “giovani delle colline” da ragazzo. Non era un membro qualsiasi del gruppo, perché si è formato alla yeshiva Od Yosef di Yitzhar, la più nota yeshiva fondamentalista di coloni, sostenuta fortemente anche dall’estero. Uno dei donatori statunitensi più noti è Jared Kushner, il genero di Donald Trump. Quando Sukkot studiava ad Od Yosef, i suoi rabbini di riferimento erano Yosef Shapira e Yosef Elitzur, autori di un libro intitolato King’s Torah.
Nella prima parte del libro, intitolata “Leggi sulla vita e la morte tra Israele e le Nazioni”, i due rabbini scrivono: «Il divieto “Non uccidere” si applica solo “a un ebreo che uccide un ebreo”. I non ebrei sono per natura senza compassione e gli assalti contro di loro servono per frenare la loro inclinazione al male». E così anche i bambini: i neonati e in generale i figli dei nemici di Israele possono essere uccisi, poiché «è chiaro che cresceranno per farci del male».
Uno dei sostenitori del libro è il rabbino Dov Lior, attuale leader spirituale di Itamar Ben Gvir, ministro della Sicurezza Nazionale di Israele.
Una volta laureato Sukkot ha continuato a insegnare nella yeshiva trasferendosi nell’insediamento di Yitzhar di cui è stato nominato portavoce.
I servizi di sicurezza interni, lo Shin Bet, per anni lo hanno avuto nel mirino.
È stato arrestato nel 2010, sospettato dell’incendio di una moschea del villaggio a Kfar Yasuf, e poi rilasciato per mancanza di prove. Nel 2011, Sukkot fu interrogato per sospetto coinvolgimento nell’incendio dell’auto del comandante di una stazione di polizia, sullo sfondo della demolizione di strutture nell’avamposto non autorizzato di Alei Ayin.
Come nel caso dell’incendio doloso della moschea, il caso fu chiuso. L’anno dopo, è stato espulso dalla Cisgiordania per i sospetti che avessero orchestrato ed eseguito attacchi violenti clandestini contro i palestinesi. Secondo l’intelligence stava «guidando attività segrete e violente contro i palestinesi».
La scorsa estate l’attuale capo dello Shin Bet, Ronen Bar, è tornato a denunciare la violenza dei coloni in una lettera aperta al Primo Ministro Netanyahu. Bar scrive che la violenza dei coloni è terrorismo e che rappresenta «una seria minaccia per la sicurezza nazionale».
Anche su queste parole, Sukkot nel suo ufficio in parlamento, sorride. «Ho letto la lettera – dice -, i vertici dello Shin Bet dovrebbero semplicemente vergognarsi».
Di fronte alle prove, alle testimonianze, alle evidenze degli assalti mortali dei coloni contro i palestinesi. Di fronte ai numeri dei morti cresciuti esponenzialmente nell’ultimo anno, dice: «Non parlerei proprio di terrorismo. Direi piuttosto che è una questione morale».
Le sue ambizioni, gli interessi che ora difende nella Knesset sono chiari: la terra appartiene agli ebrei che possono revocare la cittadinanza sia agli ebrei che agli arabi che non accettano che il Paese sia uno, e che sia lo Stato ebraico.
Nonostante sieda in parlamento da due anni non ha smesso di partecipare a azioni illegali nei territori occupati. Nel 2021 è stato tra i fondatori dell’avamposto di Evyatar, costruito vicino al villaggio palestinese di Beita. L’avamposto venne sfollato e Sukkot contribuì a creare un accordo che prevedeva che se i coloni avessero lasciato Evyatar, l’Amministrazione avrebbe esaminato il caso e valutato la possibilità di farli tornare legalmente. La scorsa estate l’avamposto di Evyatar è stato dichiarato legale secondo il diritto israeliano. Resta illegale, come tutti gli insediamenti, secondo il diritto internazionale. A febbraio del 2022, era parte di un gruppo che ha eretto diverse strutture temporanee nel deserto del Negev e ha dichiarato l’istituzione di un avamposto chiamato Ma’aleh Paula, che è stato smantellato solo poche ore dopo.
A luglio era fuori dalla prigione di SdeTeiman, gridando contro le forze dell’ordine israeliane. Nove soldati erano stati arrestati per aver abusato, torturato dei detenuti palestinesi e Sukkot, con altre decine di manifestanti, era accordo alla prigione militare per difendere i soldati.
«Lo Stato di Israele è in guerra - dice a La Stampa - e la cosa più preziosa che abbiamo sono i nostri soldati, persone che lasciano la famiglia e il lavoro per combattere. Non possiamo far loro del male». Soldati al di sopra della legge.
Ad agosto, dopo l’ultimo violentissimo raid a Jenin, Sukkot ha detto che «Jenin deve essere come Gaza». Una posizione che rivendica. «Sarei felice di distribuire caramelle per risolvere il problema degli arabi, ma se la violenza è la chiave per i nostri obiettivi, combatteremo ovunque».
L’obiettivo è chiaro sulla mappa geografica alle sue spalle. Una terra uniforme che è solo lo Stato di Israele.