la Repubblica, 13 ottobre 2024
L’arte della guerra in Ucraina
KIEV – “Un’azione decisiva per chiudere la guerra entro il 2025 e creare una soluzione stabile destinata a durare nel tempo”. Il presidente Zelensky sta presentando nelle capitali europee un percorso per la pace che in realtà è un piano di battaglia e nasce dalla convinzione di poter ancora sconfiggere i russi sul terreno. Alle porte del terzo inverno di conflitto, che si annuncia più duro degli altri, gran parte degli ucraini a Kiev, a Dnipro come a Odessa ha la stessa certezza: la guerra sarà ancora lunga. Nessuno crede a un cessate il fuoco imminente o alle formule diplomatiche di cui si discute nelle cancellerie. Quelli che contano nei palazzi del potere, premettendo di non essere autorizzati a parlare, così come i militari e i civili che dicono di non occuparsi di politica, ripetono l’identica previsione: “Non esistono garanzie occidentali in grado di tutelare il Paese dalle mire di Putin: né della Nato, né dell’Unione europea. Solo le armi possono permettere la sopravvivenza della nazione e dell’identità che abbiamo realizzato dalla protesta di piazza Maidan in poi”.
Attraversando l’Ucraina, si colgono tante fratture nel tessuto sociale che rischiano di allargarsi rapidamente. C’è quella geografica, tra le regioni in prossimità del fronte e quelle più lontane e quindi più prospere. C’è quella economica, tra i ricchi che intasano il traffico della capitale di suv e fuoriserie mentre i poveri delle periferie e delle campagne girano su vetuste Lada assemblate a Togliattigrad e fanno la coda per i pacchi degli aiuti alimentari. Infine c’è quella trasversale tra chi ha la corrente grazie ai generatori e chi invece può contare su poche ore di elettricità, restando senza riscaldamento e senza ascensori: l’effetto dei bombardamenti sulle centrali si sente negli attici dei grattacieli lussuosi come nei grigi palazzoni del socialismo reale. Nonostante le crepe e nonostante il declino dell’entusiasmo che aveva saldato la popolazione davanti all’invasore, chi per scelta o per necessità non è emigrato sa di non avere e di non volere un’altra patria. E senza retorica, anzi spesso con gli occhi pieni di dolore per i lutti o di terrore per avere vissuto l’esperienza di un conflitto “semplicemente mostruoso”, dichiara che l’Ucraina può essere salvata solo lottando fino alla vittoria. Anche se tutti riconoscono che non sarà questione di mesi, ma di anni.
A consolidarli in questa determinazione, o in questa assenza di alternative, c’è la consapevolezza di una crescente capacità bellica nazionale di cui in Europa e negli Stati Uniti pochi si sono resi conto. Gli ucraini stanno riscrivendo le regole della guerra: inventano mezzi e tattiche nuove, destinate a cambiare per sempre il modo di combattere. E sono diventati una potenza industriale militare: il prossimo anno costruiranno 4 milioni e mezzo di droni volanti; 20 mila robot guerrieri cingolati; 200 mila apparati di disturbo elettromagnetico. Già adesso consegnano più cannoni semoventi e più proiettili d’artiglieria del resto d’Europa messo insieme.
“Certo, le cose nel Donbass non vanno bene e ci ritiriamo in continuazione – spiega un ufficiale appena tornato dalla linea del fuoco – perché non abbiamo abbastanza soldati per contrattaccare. Ma voi stranieri non dovete valutare la situazione con i parametri dei vecchi manuali. Prendiamo il caso di Vuhledar, che abbiamo abbandonato la scorsa settimana: dal 2014 la sua posizione in cima ad un’altura era considerata strategica perché dall’alto permetteva di scoprire i movimenti del nemico. Oggi però ci sono sempre dozzine di droni d’ogni tipo che senza sosta controllano il terreno dal cielo e avvistano lo spostamento anche di una bicicletta nel raggio di dieci chilometri: stare sopra la collina non rappresenta più un vantaggio.
E neppure appostarsi tra i resti di una cittadina è molto utile. Negli scontri tra cecchini gli edifici offrivano un riparo, invece i droni si infilano dentro le finestre e ammazzano chi si trova all’interno delle stanze. Fino a pochi mesi fa sembrava fantascienza, ormai avviene ogni ora e ci permette di decimare i russi”.
Il dio della battaglia
Napoleone sosteneva che le battaglie si vincono con i cannoni e Stalin è arrivato addirittura a dire che “l’artiglieria è il dio della guerra”. Dall’autunno del 2023 non è più così: ora il nume supremo è il drone, che si è imposto nel Pantheon bellico. “I nuovi FPV sono semplici, precisi e low cost. Ognuno neutralizza un obiettivo mentre per raggiungere lo stesso risultato ci vogliono almeno tre proiettili di cannone. Non solo. Istruire un artigliere richiede mesi di corso perché deve imparare a calcolare distanze e traiettorie. Invece pure un quattordicenne può pilotare questi elicotterini, che si guidano con gli stessi occhiali-visori dei videogiochi”.
La parola chiave è proprio FPV, acronimo inglese per First Person View ossia “vista in prima persona”: i quadricotteri manovrati in maniera istintiva attraverso una minuscola console sono stati inventati come giocattoli e ora sono diventati sicari letali. Gli ucraini hanno coniato l’espressione “il cielo sporco” per indicare quando queste armi affollano l’aria volteggiando come rapaci meccanici in cerca di prede. “Ci sono soldati che impazziscono e continuano a sentire il ronzio dei quadricotteri giorno e notte – racconta Victoria, una ex infermiera dell’esercito britannico che ha curato i feriti in Afghanistan e ora è una volontaria dell’Ong “Way to health” che si occupa del recupero dei mutilati a Dnipro -. Questa guerra ha creato traumi mai visti prima…”. “I fanti una volta maledicevano la pioggia che riempiva d’acqua le buche – spiega Jack, tiratore scelto e reduce della disperata battaglia di Bakhmut –, adesso festeggiano perché i temporali mettono fuori gioco gli aeroplanini killer”.
I droni stanno cambiando tutto. Non solo nell’aria, ma pure in mare e in terra. Nel Mar Nero hanno permesso a una nazione senza navi di spazzare via la potente flotta di Mosca che nella primavera 2022 si mostrava con arroganza davanti Odessa e adesso si rifugia timorosa molto a oriente della Crimea. Si preparano a esordire formazioni di imbarcazioni senza equipaggio: quelle con radar che esplorano, altre che proteggono con missili contraerei e altre infine che si lanciano all’assalto. Pure i robot cingolati non sono più un’eccezione. Sempre più spesso si accollano i compiti troppo rischiosi per gli umani. Alcuni vanno alla carica contro le trincee nemiche, sparando con le mitragliatrici. Altri riforniscono di munizioni i capisaldi assediati oppure portano via i feriti sotto una pioggia di bombe.
Di conseguenza, le strategie stanno venendo rivoluzionate. “La Nato mette al primo posto il concetto di supremazia aerea che significa impedire le attività dell’aviazione nemica – sottolinea l’ex ministro Andry Zagorodniuk -. A noi invece basta impadronirci di cinquecento metri di cielo, lo spazio in cui volano i quadricotteri: se cancelliamo i loro droni da questa fascia, allora accechiamo i russi e possiamo attaccarli liberamente”. Cosa significa? Che adesso vengono costruiti droni caccia-drone. “Abbiamo realizzato e donato 19 mila FPV, usando esclusivamente materiali prodotti in Ucraina. Poco prima dell’estate abbiamo inventato l’Hornet Queen, un drone madre che ne sgancia uno più piccolo e gli fa da ponte radio, triplicando il raggio d’azione. Inoltre abbiamo messo a punto un prototipo che tocca la velocità record di 365 chilometri orari: l’ideale per intercettare altri droni”.
Vjaceslav, 38 anni, è uno dei due fondatori della Wild Hornet, un collettivo no profit di volontari che spicca per creatività. Non è l’unica ong degli armamenti: ci sono tante associazioni di volontari che progettano o montano droni, occupandosi anche di addestrare gli operatori. “Lo Stato e l’esercito non danno qualità, pensano alla quantità e forse non può che essere così. Allora entriamo in scena noi: raccogliamo donazioni e mettiamo insieme competenze per fare la differenza”, spiega Maxim di Victory Drones. In una colossale fabbrica sovietica trasformata in uffici con arredi scandinavi, questo trentenne con il look da nerd mostra a soldati muscolosi e tatuati come cambiare frequenza per superare i disturbatori del nemico. Maxim si è laureato in avionica e ha lavorato per aziende aeronautiche britanniche, poi al momento dell’invasione è tornato a casa e ha messo le sue conoscenze al servizio del Paese: “Nel ministero della Difesa c’è una burocrazia asfissiante. Invece noi dobbiamo essere creativi: affrontiamo una guerra asimmetrica, perché la Russia ha più uomini e più risorse. Possiamo vincerla solo puntando sulle nuove idee. Io lo ripeto in continuazione: i nostri cervelli sono i nostri fucili”.
Anche il fondatore della Wild Hornet la pensa allo stesso modo: “Ci vogliono le idee e tanta semplicità. Noi abbiamo adattato dei sistemi di tracking che costano meno di cinquanta euro: adesso guidano automaticamente il drone sul bersaglio designato, senza bisogno di un uomo ai comandi e senza temere interferenze”. La risposta all’asimmetria di Mosca si concretizza nei filmati della resistenza di Avdiivka: in pochi minuti i quadricotteri della Wild Hornet hanno devastato una colonna corazzata russa con nove tank e una dozzina di blindati. “C’è una differenza esponenziale tra il valore dei mezzi che distruggiamo e il prezzo dei nostri droni, che costano solo 420 dollari ossia 20mila volte di meno”.
Volontariato bellico
Questo Terzo Settore bellico è un altro primato, che non ha precedenti nella Storia: nei negozi, nei ristoranti, negli alberghi si raccolgono fondi per donare droni, giubbotti antiproiettile, veicoli blindati. Questo attivismo dal basso ucraino è specchio della volontà di superare l’eredità sovietica con un pragmatismo che supplisce alle carenze delle istituzioni pubbliche. “Ai tempi dell’Urss se la macchina statale era inefficiente ti lamentavi e aspettavi che qualcuno dall’alto mettesse a posto le cose. Noi invece ci rimbocchiamo le maniche e troviamo soluzioni”, chiosa Maxim. Nella sala c’è un uomo di sessant’anni che assembla i meccanismi per sganciare le granate: l’elemento che trasforma i balocchi elettronici in bombardieri crudeli. “Sto imparando l’italiano, è una lingua che mi rilassa. Io possiedo una società che si occupa di metalli ma appena posso vengo qui a montare droni – dice Illia -. Quando i russi hanno assaltato Kiev ho impugnato un kalashnikov e ho difeso la mia città. Anche mio figlio era nell’esercito…”. Appena cita il figlio gli occhi si riempiono di lacrime: è facile comprende cosa lo spinga ad accanirsi sul pezzo che semina morte sui russi…
Completamente diversa l’atmosfera del forum andato in scena martedì primo ottobre nello sfavillante salone bunker con lampadari di cristallo due livelli sotto l’Hotel Intercontinental di Kiev. Lì il governo ha convocato i rappresentanti di 119 aziende della difesa di tutto l’Occidente, inclusa una decina di italiane. Il DFNC2 è un evento a metà strada tra lo show e la fiera, creato per persuadere i manager stranieri a realizzare fabbriche in Ucraina: vengono proposti accordi decennali con un regime fiscale promettente e la prospettiva di esportazioni in altri Paesi. Soprattutto, gli ucraini offrono la possibilità unica di mettere a punto i prototipi direttamente al fronte, con una rapidità di innovazione tecnologica straordinaria. “Oggi si può dire che un’arma funziona solo se è stata provata in Ucraina”, proclama tra gli applausi la viceministra delle Industrie Strategiche Anna Gvozdiar.
L’obiettivo del governo non è più ottenere armi e munizioni in regalo: l’urgenza resta soltanto per le batterie contraeree, chiamate ad arginare le ondate di ordigni che ogni notte si abbattono sulle città. Adesso ai partner si domanda di finanziare la produzione bellica nazionale, secondo il modello introdotto dalla piccola
Zelensky ne ha discusso in tutte le tappe del tour europeo, anche con Giorgia Meloni, presentando una lista di aziende “invitate” a investire in Ucraina. A dare l’esempio è stata la Rheinmetall tedesca, prima ad inaugurare un impianto nel Paese, seguita dal gruppo franco-germanico Knds e dagli svedesi di Saab. Poco o nulla con i big statunitensi. Non è un caso. C’è un senso di ostilità crescente verso gli americani. L’impressione che la paura dell’atomica russa li abbia spinti a impedire in più occasioni all’Ucraina di assestare colpi decisivi agli invasori. A Kherson nell’ottobre 2022, tutelando la ritirata della divisione nemica che ha attraversato indenne il fiume Dnipro. O rallentando in tutti i modi la consegna dei caccia F16 e l’addestramento dei piloti. Infine c’è il no statunitense agli ordigni a lungo raggio, che ritengono abbia vanificato l’effetto dell’attacco a Kursk. Gli interlocutori di ogni livello scandiscono come in un mantra che “l’interesse di Washington è logorare l’armata russa, non far vincere l’Ucraina”.
Nella convention dell’Hotel Intercontinental, Zelensky e i ministri fanno capire in maniera più o meno esplicita che i missili balistici ucraini sono pronti, così come altre “sorprese” destinate a piovere in profondità nel territorio di Mosca e vanificare il veto di Biden. “In realtà lo stiamo già facendo e ogni notte i droni ucraini colpiscono le infrastrutture di Putin. Ma ci servono strumenti più potenti, perché così potremo chiudere il nemico in una trappola continua, con sciami di Fpv che si accaniscono sulla prima linea e i nostri missili che impediscono di trasferire rinforzi e rifornimenti. Sarà il nostro modo di riscrivere la dottrina Nato di deep strike”, Alex è il ceo e il fondatore della Skyeton, un’azienda che produce veri aerei senza pilota, con prestazioni straordinarie e costo di oltre tre milioni e mezzo di euro: “Li abbiamo perfezionati per renderli invisibili ai radar e restare in volo 18 ore. Abbiamo già introdotto un sistema di guida immune da disturbi e tra pochissimo ci sarà l’intelligenza artificiale. La rapidità della nostra innovazione nasce dal rapporto diretto con il campo di battaglia. Finora i nostri Raybird erano solo ricognitori, adesso avranno capacità distruttive”. L’impianto è camuffato in una periferia cadente: all’interno di capannoni sgarrupati spuntano laboratori degni della Silicon Valley, con catene di montaggio sotterranee che ogni anno costruiscono cento droni stealth. I ministri hanno promesso durante il DFCN2 che il divieto di venderli all’estero cadrà presto e che l’export bellico porterà subito dieci miliardi di euro l’anno.
Il manpower
“Droni e armi hitech ci servono per risparmiare uomini e concentrare quelli che abbiamo nei luoghi chiave. I ventimila robot terrestri in arrivo si occuperanno di sorvegliare le frontiere e permetteranno di liberare altrettanti soldati”, evidenzia la viceministra Gvozdiar. Il manpower, l’abbondanza di fanti da mandare all’assalto, è il principale punto di forza dei generali di Putin. La mobilitazione obbligatoria introdotta da Kiev la scorsa primavera non sembra decollare. C’è però un paradosso: l’esercito non trova reclute, i reparti scelti invece ne hanno in abbondanza. Alla Terza Brigata d’Assalto non amano sentirsi chiamare Azov, anche se sono orgogliosi di nascere dagli stessi ideali a dir poco nazionalisti. Il comando è all’interno di un’altra industria abbandonata. I selezionatori dei candidati siedono nella vecchia sala d’ingresso sovietica: ai muri vessilli con il logo in stile Waffen SS e ritratti dei caduti. Le finestre sono sbarrate da sacchetti di sabbia. Ricorda il bunker della Cancelleria, cosa che non deve dispiacergli. Sono in tre, in mimetica. Due hanno il braccio sinistro amputato, con il moncherino senza protesi: chi si vuole arruolare è obbligato a rendersi conto dei rischi. Volodymir è il responsabile e prima della guerra si occupava di marketing: sa bene i messaggi che deve veicolare.
In Ucraina gli spot delle singole brigate sono ovunque: video, manifesti, locandine, adesivi, murales. Le pubblicità sono in apparenza simili, perché hanno l’obiettivo di convincere a scegliere la qualità di equipaggiamenti e mezzi. D’altronde la gente conosce bene le unità più celebri, protagoniste di una Iliade che si combatte ogni giorno da tre anni: offrono un’alternativa alla leva dei “normali” reparti dell’esercito dove tutti temono di diventare carne da cannone. Ai gruppi d’élite gli uomini non sono mai mancati e si possono permettere di scegliere i migliori. “La preparazione fisica non conta, a quella pensiamo noi – illustra Volodymir -. Ci interessano le motivazioni: la loro determinazione, i valori che sono pronti a condividere. Chi viene qui sa già chi siamo e cosa li aspetta: la fanteria d’assalto, quelli che espugnano le trincee”. Queste unità non hanno problemi di organico e sono sempre più importanti anche se nessuno sa valutarne il rilievo politico. Per evitare l’anarchia, l’esercito ha imposto che i loro volontari facciano un mese di formazione comune alle altre matricole. Per questo le brigate prima e dopo impartiscono un addestramento supplementare: meno di due mesi tra la vita civile, identica a quella dei ventenni italiani, e l’inferno del Donbass, “ma se la situazione lo richiede partono anche prima”. Gli ufficiali non vengono dall’accademia: sono capi, che si sono imposti sul campo e hanno la fiducia di chi li segue. Nella sala entra il sergente istruttore: ha la pelle coperta di tatuaggi e un sole nero vichingo dal collo allarga i raggi sul volto. Accompagna una recluta con il Kalasnikhov a tracolla. Atletico e sguardo fiero, Anton è l’icona del guerriero ucraino: “Ho 25 anni, volevo partire prima ma mi hanno detto di completare gli studi: ho preso la laurea in commercio ed eccomi qui”.
Ci sono molti volontari stranieri? Volodymir è laconico: “Se ne occupa un altro dipartimento...”. “Abbiamo spagnoli, americani, bielorussi, britannici. C’è pure un italiano ma vive in Francia da anni”, elenca senza remore il graduato del battaglione “Da Vinci”. Il reparto ha preso il nom de guerre del fondatore, che studiava pittura e ha mollato i pennelli per prendere le armi nel 2006. Il battaglione ha gli uffici in una zona chic, dove abita la classe media benestante che pranza bio e non fuma. Il palazzo è di inizio Novecento, ospitava un teatro e alcune istituzioni culturali: ora svetta la bandiera nera con i tre lupi del Da Vinci. Al capo non dispiace stare lì: ha studiato da attore e recitato in “Rhino”, il film che è anche una sorta di manifesto del suo gruppo nazionalista. “Sono stato al Festival di Venezia quando è stato presentato nel 2021. L’unico viaggio all’estero della mia vita”. Lui e l’altro selezionatore sono veterani: “Siamo stati nei posti peggiori, noi lupi siamo i pompieri: ci mandano a spegnere i fuochi che rischiano di bruciare il fronte, ad esempio a proteggere l’unica strada per Bakhmut”. Se fate un lavoro così pericoloso, perché la gente vuole arruolarsi con voi? “Perché non gli diamo un biglietto di sola andata. Cerchiamo di addestrarli bene e gli diamo un buon equipaggiamento. Ma soprattutto per gli ideali: chi combatte con noi è una persona, non un numero. Sa che chi gli copre le spalle non lo abbandonerà mai”. Apre il portatile e mostra i numeri delle reclute: “Sono segreti, non li scriva. Vede quanti sono? E quanti ne respingiamo? Non avevano la grinta che chiediamo”. Entrano due candidati, hanno solo 17 anni e frequentano il professionale per saldatori. Il capo li tratta rudemente: “Ma avete idea di cosa vi aspetta? Prendete il diploma, fate sport e tornate tra due anni. Non abbiate fretta: ci sarà abbastanza guerra per tutti”.