la Repubblica, 13 ottobre 2024
Parla Antonio Piazza, il regista di Iddu
Il regista Antonio Piazza a ventisei anni è scappato da Palermo, dalla mafia che gli aveva bruciato la casa paterna, minacciato di rapire la sorella, assassinato un’amica carissima. A Torino, a un corso di scrittura, ha incontrato Fabio Grassadonia, anche lui in fuga. Uno ha lasciato il giornalismo, l’altro l’insegnamento. Si sono trasferiti a Roma, sono diventati sceneggiatori, poi registi: «Quando si è trattato di raccontare una storia nostra ci è sembrato naturale tornare nei luoghi che ci eravamo lasciati alle spalle, affrontare il senso profondo di quell’esperienza di vita – dice Piazza – Abbiamo messo mano alla nostra vita di ragazzi cresciuti nei terrificanti Ottanta e Novanta in Sicilia, confrontandoci con le conseguenze antropologiche e culturali di quella situazione politica e mafiosa». Per farlo hanno scelto la chiave del genere, thriller, favola, commedia grottesca. Tre film in dieci anni:Salvo, A sicilian ghost story e oraIddu-L’ultimo padrino, ispirato ai carteggi tra Matteo Messina Denaro (Elio Germano) e un politico amico di suo padre (Toni Servillo): «Volevamo svelare il mondo della latitanza anche nei suoi aspetti più ridicoli e grotteschi». I cineasti hanno accompagnato il film – in sala – per l’Italia e nei luoghi in cui è in cui è stato girato: Alcamo, Trapani, Mazara del Vallo. Piazza: «Sale sold out, a Mazara del Vallo tanti cittadini di Castelvetrano, venuti apposta».L’esercente dell’unico cinema di Castelvetrano, figlio del politico cui è ispirata la figura di Servillo, aveva rifiutato la proiezione (che ha poi organizzato il sindaco): «Ha la libertà di programmare ciò che vuole. Ma siamo partiti da una figura reale per costruirne una di fantasia, sui modelli della commedia all’italiana».Quando e perché se ne è andato?«Ho lasciato Palermo nel 1996. È stata una fuga. Ho dapprima reagito a quegli anni con grande passione politica, vissuto la primavera diPalermo, la Pantera studentesca. Facevo il giornalista, ma sapevo che non era il mio punto d’arrivo. A Torino con Fabio abbiamo capito che volevamo indirizzare la nostra rabbia civile verso un percorso creativo».Il suo primo ricordo di mafia?«Due eventi hanno cambiato il mio modo di guardare alla realtà intorno a me. Quand’ero piccolo mio padre era un piccolo imprenditore edile onesto, nella Sicilia degli anni Settanta e Ottanta non era facile. A casa arrivava l’eco di episodi che subiva: cantieri boicottati, piccoli furti, incendi. Poi le cose si sono fatte più serie, hanno iniziato a minacciare di sequestro mia sorella, che non usciva più da sola. In casa vivevamo un’atmosfera di grande tensione, al culmine della quale mio padre decise un gesto all’epoca inconsueto, cioè andare alla polizia e denunciare. Quando è tornato a casa, i mafiosi già sapevano tutto. Ha aperto la porta e già squillava il telefono, ha ricevuto pesanti minacce. Poi hanno messo una bomba alla casa dei miei genitori a Termini Imerese, che è andata parzialmente distrutta. Oggi miopadre non c’è più, noi ci occupiamo della ristrutturazione e sono riemersi i segni di quell’incendio. Queste cose ti cambiano. O decidi di fare finta di niente, oppure apri gli occhi e guardi il mondo in modo diverso».E poi è morta una sua cara amica.«Sì. È stata la cosa che mi ha fatto dire “me ne vado”. Giovanna Ida Castelluccio era una mia compagna di liceo. Poi si era iscritta a Biologia e sposata con Nino Agostino, che per noi era un poliziotto del commissariato San Lorenzo a Palermo. Oggi sappiamo che invece faceva parte di una struttura segreta. Falcone si era reso conto che alcuni servitori infedeli dello Stato incontravano i mafiosi latitanti e aveva mandato Nino a indagare sul centro Gladio di Trapani. Lo hanno ucciso insieme a Giovanna Ida, che era incinta, probabilmente gli stessi del depistaggio della strage Borsellino. Hanno svuotato gli armadi di casa, fatto sparire le agende. Al loro funerale, con sorpresa di tutti noi, vennero Borsellino e Falcone, che disse: “Questo ragazzo mi ha salvato la vita”, forse riferendosi al fallito attentato dell’Addaura».Con suo padre ne parlava?«La consapevolezza dei ragazzi di oggi allora non c’era. Fingevamo di vivere in una città normale. Quando è esplosa la bomba di Rocco Chinnici, la prima autobomba di Palermo, casa nostra era a poche centinaia di metri, la forza dell’esplosione mi ha scagliato sul pavimento. Ricordo che siamo stati tutti zitti, abbiamo chiuso casa e ce ne siamo andati al mare. I miei appartenevano a una generazione del silenzio. Mio padre era esempio concreto di onestà, ma discorsi non se ne facevano».Come reagiva sua madre?«Era una maestra, ha sempre lavorato nei quartieri popolari, per scelta. La mattina faceva il giro delle case per portare i bambini a scuola, contro la dispersione scolastica. Era il suo modo di reagire. Quello di miasorella è stato dedicarsi alla protezione del patrimonio culturale, è architetto alla Sovrintendenza».Lei ha scelto il cinema.«Sì. E non me ne pento, perché le storie e i film possono arrivare al cuore della gente. È il mio modo di reagire, di lottare. È la mia rivincita».Cosa è cambiato in Sicilia e cosa è rimasto lo stesso?«La Sicilia è uno stato d’animo che ha a che fare con la catastrofe permanente, un tempo ciclico: in questo ripetersi il male alberga ed emerge. Siamo la seconda regione per emigrazione giovanile. Il 70% dei compagni di liceo se n’è andato. L’emorragia continua ancora».In che modo questo film parla alla Sicilia, al Paese?«Il pubblico entra in sala pensando a un film che ha a che fare solo con la figura di un criminale. Noi lo portiamo a riflettere sul mistero di una latitanza trentennale, consumata alla luce del sole. E proviamo a trascinarlo a sperimentare una condizione umana che non riguarda solo il criminale, ma tutti noi».