Corriere della Sera, 13 ottobre 2024
Angelo Ferracuti racconta Mario Ferracuti
Adesso mi avvicino al tavolo, tocco con la mano la superficie, accarezzo le ante, apro gli sportelli. Accendo l’interruttore e la plafoniera s’illumina, adesso la stanza sembra prendere un po’ di vita». Per fare un buon memoir – dei tanti che abbiamo letto relativi alla famiglia, al rapporto con i padri e le madri – basta un discreto materiale di ricordi capaci, insieme, di raccontare una storia individuale. Per dare vita a ciò che sarebbe andato perduto e fare un grande libro, autobiografico o no, ci vuole anche altro. Andrea Zanzotto diceva che la «poesia è il rigore di un sentimento che tende a farsi forma, espressione», e questo è vero soprattutto quando si scrive di sé: non un sentimento generico, ma elaborato, selezionato, sofferto fino alla spietatezza, che cerca una sua forma espressiva. Sono considerazioni banali che però spesso vengono dimenticate nella scrittura e nella lettura (anche critica). Tutto questo, la tensione espressiva nella severità del sentimento, lo troviamo nel nuovo romanzo di Angelo Ferracuti, Il figlio di Forrest Gump (Mondadori). Dopo prove notevoli nell’inchiesta e nel reportage narrativo, questo è forse il suo libro migliore: un approdo necessario tipo quello che portò James Ellroy al culmine con la ricostruzione dell’assassinio della madre ne I miei luoghi oscuri. Qui non ci sono omicidi cruenti, ma quasi, se si considera la famiglia nella sua essenza di crudeltà anche in assenza di sangue. La necessità la si coglie ad apertura di libro: non una sbavatura nel racconto di un padre amato-odiato, odiato nello scorrere della vita, amato, cercato, rincorso quando è troppo tardi. Un padre che ha fatto poco per farsi amare, provocatorio, infantile più del figlio Angelo, il cane sciolto ribelle. Un padre di corsa, letteralmente: perché la sua passione è correre, una passione arrivata tardi, per reazione a un cancro. Sfida che lo porta a successi impensati. Su tutti, nel 1985, i 303 chilometri in 48 ore corsi su una pista d’atletica sopra Ascoli: «Correre fu la sua ribellione».
Non so quanto abbia ragione il Murakami Haruki messo in epigrafe. D’accordo, scrivere è uno «stimolo interiore» come correre una maratona, ma sarà vero che non pretende una conferma all’esterno? In realtà Mario, il padre di Angelo, la sua conferma la desidera eccome, ovunque in Italia e nel mondo, correndo per le strade di New York, Londra, Mosca, Budapest, Barcellona, Stoccolma, Helsinki, Jerba, Parigi, Atene... E ce la fa, se diventa una leggenda, un pioniere, il terzo italiano di tutti i tempi per numero di gare effettuate. Corre dunque per piacere, testardaggine, disperazione; per fuggire ma anche per essere riconosciuto dalla famiglia, dagli amici, dalla sua piccola città (il toponimo di Fermo non compare).
Un destino e un’ossessione. Un po’ come per lo scrittore suo figlio, che pure cerca in tutti i modi di diventare il suo esatto opposto, allontanandosi il più possibile da quel democristiano allevato nell’incenso, «artista della polemica», irascibile, logorroico, arrogante e qualche volta manesco, sportellista delle Poste durante la settimana, maratoneta amatoriale nei giorni liberi. L’eroe marchigiano, che in paese chiamano con un velo di ironia «quello che corre», struttura fisica alla Zatopek, diventò per gli amici Forrest Gump, come il personaggio del film, ignorato o deriso dal figlio almeno quanto il figlio era deriso da lui in tutte le sue espressioni, specialmente nelle ambizioni letterarie.
Ora il figlio di Forrest Gump racconta il padre, assecondando un suo estremo e imprevedibile desiderio, ma senza fare sconti alla sua memoria: lo racconta nel momento in cui, morti i genitori, si tratta di dire addio alla casa in cui tutto si era compiuto. Nell’aspettare la ditta dei traslochi prima che quegli spazi vengano occupati da quattro ragazze richiedenti asilo, Angelo decide di portarsi via l’unica fotografia del nonno, misteriosa immagine dell’avo folle, morto suicida, da cui prende inizio il racconto: il germe di quella tentazione nichilista sarà ereditato da Mario e da suo figlio, sempre diversamente attratti e respinti dalla vita. Questo è anche un romanzo della doppia resistenza contro la follia e contro la morte, o contro la follia annientante, che aleggia ovunque: il romanzo racconta le particolari strategie di aggiramento che sono la corsa e la letteratura. Da qui il rispecchiamento conflittuale e doloroso.
Tensioni
Questo è soprattutto un romanzo sulla forza di repulsione e di attrazione della famiglia
Nella resa dei conti, all’altalena psicologica dei personaggi, all’altalena tra vivi e morti (gli avi rivissuti), fa eco l’altalena strutturante del racconto, nel passaggio continuo tra l’oggi colmo di malinconia e il passato rabbioso: salvo scoprire con gli anni una somiglianza del figlio al padre che né Angelo né altri avrebbero mai sospettato. Tanto meno la madre, resistente a sua volta, altalena lei stessa tra le bizzarrie del marito e quelle del figlio, donna eroica come tante madri, vittima e combattente della sacra famiglia, china sulla Singer ma ostinata nella mediazione (per lo più fallimentare).
Questo nuovo libro di Ferracuti è dunque in primo luogo un romanzo sulla forza di repulsione e di attrazione della famiglia e sulla cattiveria gratuita che la famiglia sprigiona pur di sopravvivere a sé stessa, visto che quando la cattiveria è finita è troppo tardi per qualunque riparazione: ne rimane il ricordo, dolceamaro, sufficiente tutt’al più a scriverne. La scrittura è in parte rimestamento feroce nelle ferite e in parte disperante sforzo di riconciliazione fuori tempo massimo, che tocca l’apice nei non frequenti paragrafi in corsivo in cui il figlio si rivolge al padre, utilizzando il «tu», con confidenze lirico-interrogative impensabili quando il genitore era in vita.
È inevitabile che in una prova così psicologicamente complessa qualche pagina possa apparire eccesiva: come quella in cui il medico Leccisi, incontrato a distanza di anni, ricorda all’ex ragazzo quanto era ribelle e ansioso (ma di un’ansia conoscitiva), come se il narratore, a torto, non si fidasse troppo della capacità di dircelo da sé, senza affidare deleghe. Lungi dall’accontentarsi della sua crudele e privata resa dei conti, va apprezzato il «romanzo sociale», in cui Ferracuti è capace di aprire la sua vicenda personale al contesto antropologico dell’Italia anni Settanta e Ottanta: e lo fa senza forzature, consapevole del fatto che le conflittualità familiari diventano necessariamente il motore – talvolta funzionante, spesso inceppato – della storia collettiva, tanto più quella italiana. Per questo il lettore si trova di fronte a un duplice racconto intrecciato: e sentiamo subito che l’incompatibilità privata con il padre è anche una disputa in pubblico con una mentalità generale in cui chi scrive, pur con aperta ostilità, si ritrova fatalmente invischiato. Ecco l’arrancare della piccola borghesia in un Paese ottuso e corrotto quasi per vocazione, gli sconti con le generazioni passate, i conflitti politici, sociali, culturali, con i sogni, la vitalità e gli errori che li hanno alimentati, e a cui si è cercato di rimanere attaccati coi denti, dopo il naufragio, anche grazie alla scrittura. Per tante ragioni, Il figlio di Forrest Gump è un romanzo che recupera per noi il senso della letteratura.