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 2024  ottobre 13 Domenica calendario

Giorgio Armani racconta la storia della sua vita

Giorgio Armani visto da vicino è esattamente come te lo aspetti: occhi chiari, capelli candidi, erre piacentina, gentilissimo con tutti. 
Qual è il suo primo ricordo? 
«Non so se è il primo, ma ricordo quando mio padre, impiegato amministrativo del fascio di Piacenza, mi portò con mio fratello dal federale. Lo rivedo tronfio, in orbace. Sentivo la presenza di questa persona, e nostro padre era orgoglioso di presentarci a lui. Fu un episodio determinante: fu lì che capii cosa voleva dire far parte di un mondo, dover portare una divisa per avere di che mangiare». 
Com’era la vita sotto il fascismo? 
«In famiglia ne parlavamo spesso, e si confrontavano due opinioni diverse. La cosa principale era che non potevamo dire di no al sistema: o ne facevi parte, o venivi tagliato fuori. Poi c’erano anche cose buone». 
Quali? 
«Ci organizzavano un po’ la vita. Le gite in campagna con la distribuzione del pane, le colonie estive, gli spettacoli teatrali organizzati dal dopolavoro... Un po’ noi ragazzini ci divertivamo». 
Sua madre era direttrice della colonia di Misano. 
«Ma trattava me e mio fratello Sergio come tutti gli altri, ci metteva nel camerone comune, ed era giusto così, che non ci fossero preferenze». 
È vero che lei era un po’ geloso di suo fratello? 
«Be’, come potevo non essere geloso essendo piccolino, moro, con i capelli dritti, e avendo un fratello alto, biondo, bellissimo?». 
Anche lei è considerato un uomo bellissimo. 
«Sono diventato bello. Da piccolo ero bruttino. Poi avevo un’età in cui le ragazze ancora non erano nel mio mondo. Per mio fratello l’arrivo delle formazioni aeree alleate era il segnale che la giornata sarebbe stata bella, e lui sarebbe potuto uscire con le ragazze in bicicletta. Io da quegli aerei ero terrorizzato...». 
Come ricorda la guerra? 
«Vivevamo al quinto piano di un grande silos. Di notte la mamma ci svegliava alle tre e ci portava giù in cantina, che non era un vero rifugio, sarebbe bastato un soffio e la casa sarebbe crollata. Però anche lì ho trovato di che divertirmi. C’erano i miei compagni, facevamo dei giochi». 
Quali giochi? 
«Il gioco dei segreti. Si scriveva una cosa su un foglio di carta, la si nascondeva, ed era il nostro segreto». 
Lei ha raccontato una storia molto tenera, l’innamoramento infantile per una bambina, Wanda. 
«Avevo 7, 8 anni. Wanda viveva a tre isolati dal mio ed era una bambina dall’aria esotica, dal colorito un po’ etnico: capelli dritti, riga in mezzo, un po’ come le ragazze di adesso. Era diventata la mia fidanzatina. Morì schiacciata da un tir. Passò un camion, lei attraversò la strada, non si accorse che dietro c’era un altro camion, che la colpì qui, al cervelletto». 
Anche lei ebbe un incidente da bambino. 
«Finita la guerra noi ragazzini andavamo in giro a raccogliere la polvere da sparo. Uno dei miei amici prese un pacchetto, accese una miccia… io mi ero affacciato in strada per vedere cosa succedeva e presi in pieno la fiammata. Rimasi in ospedale venti giorni, rischiai di perdere la vista». 
Nel 1947 si trasferisce a Milano. Di solito della Milano del dopoguerra si dicono meraviglie. Nei suoi racconti invece prevale la paura del futuro. 
«Venivo da Piacenza, che era un piccolo grande villaggio. Milano cominciava a essere una città. Papà lavorava in una ditta di autotrasporti. Un giorno mi dette in mano il telefono, ma io avevo il terrore di telefonare. Mi vergognavo. Perché il telefono mi ricordava quello che avevo visto sul tavolo del federale. Certe cose ti restano dentro». 
A Milano conobbe Jannacci. 
«Enzo era mio vicino di casa. Un ragazzo delizioso, fantastico, divertentissimo, molto carino con me, anche se la madre lo rimproverava: “Guarda come si veste bene il tuo amico Giorgio, non come te che sei così trasandato...». 
Come si vestiva da ragazzo? 
«Mi vestiva mia madre, in modo essenziale, legato alla sua natura, alla sua visione delle cose; molto semplice, con personalità però». 
È vero che la sua prima volta fu con una ragazza bruttina? 
(Armani sorride) «In effetti non era il massimo... però mi aiutava quando ero alla cattedra interrogato. Lei dal banco mi suggeriva, perché risulterebbe che io fossi un po’ asino... Una mia compagna di classe fu intervistata e disse proprio che “il signor Armani era un vero asino”. Mi ferì moltissimo. Non era carino dirlo». 
E il primo amore maschile quale fu? 
«Non ho mai parlato di questo. (Armani resta a lungo in silenzio). Fu sotto un capannone sulla spiaggia di Misano Mare, alle 5 del pomeriggio, quando tutti i ragazzi della colonia venivano ricoverati sulla spiaggia per rilassarsi». 
Il riposino pomeridiano. 
«Ecco. Io ero in un gruppo di ragazzi, di bambini, e c’era un responsabile, un giovane uomo, che mi ispirò subito un sentimento d’amore. Non ho ben realizzato questa cosa, non le ho dato seguito. Ma da lì in avanti la mia vita cominciò, in un altro modo». 
E le faceva paura questo sentimento? 
«No, non ne ero conscio, non capivo cos’era, non facevo differenze tra uomo e donna. Era un’attrazione che sentivo, una cosa bellissima: non vedevi l’ora di stargli vicino, di farmi accarezzare… una grande emozione. Queste cose non le ho mai dette a nessuno. È un ricordo molto emozionante». 
L’incontro con Sergio Galeotti come fu? 
«Ci siamo conosciuti vicino alla Capannina, in Versilia, dov’ero in vacanza per due giorni. Incrociai Sergio in macchina, mi piacque subito il suo sorriso toscano, e diventammo subito amici». 
Fu lui a spingerla a mettersi in proprio? 
«Sì, mi diede coraggio, fiducia. Mi disse: tu hai un potenziale importante. Sergio aveva visto i miei vestiti, si era reso conto che potevo arrivare più lontano. Allora il mondo della moda a Milano era gestito da persone un po’ adulte. Io ero giovane, avevo stimoli diversi». 
Era stato già scoperto da Nino Cerruti. 
«Mi fece un test, mi mostrò stoffe di vari colori, e scoprì che mi piacevano quelli che piacevano a lui, un po’ spenti... ho sempre amato il colore del fango del Trebbia». 
Decisivo fu il film «American Gigolo», dove Richard Gere veste solo Armani. Divenne il simbolo degli anni 80: le giacche destrutturate, i pantaloni morbidi. 
«Il protagonista avrebbe dovuto essere John Travolta, che dopo la Febbre del sabato sera era l’attore più famoso al mondo. Paul Schrader, il regista, lo portò a inizio agosto in una Milano semideserta, i pochi passanti mi guardavano accanto a Travolta con due occhi così. Poi per fortuna Schrader cambiò protagonista, perché Travolta non era assolutamente il personaggio che poteva mettere con eleganza i miei vestiti». 
Lei ha detto di aver guardato a Coco Chanel e a Saint Laurent; però ha anche sbottato contro l’arroganza dei francesi. Come stanno davvero le cose? 
«Parlavo dei francesi di quest’epoca, non di quelli di prima. Chanel non era arrogante, era una persona elegante che aveva riscoperto l’eleganza della donna. Saint Laurent trovò la formula giusta per essere un po’ più sexy di Chanel, un po’ più attuale. Come loro, anch’io ho cercato di liberare donne e uomini da tante costrizioni». 
Chi sono i francesi un po’ arroganti? Arnault e Pinault? 
«No, non è carino dire questo. Arnault è un grande personaggio, fu il primo a propormi di collaborare: Armani&Arnault insieme». 
Lei però non ha mai venduto, a differenza di quasi tutti gli altri. Perché? 
«Perché non ho mai avuto tempo di mettermi a un tavolo e pensarci bene». 
Dica la verità. 
«La verità è che ritenevo di dover ancora fare molto da solo. E poi... un po’ di orgoglio personale». 
I vecchi piemontesi dicevano: chi vende non è più suo. 
«È un motto che mi piace e farò mio: chi vende non è più suo». 
Sergio Galeotti morì nel 1985, a 40 anni. 
«Quando morì Sergio, morì una parte di me. Devo dire che mi complimento un po’ con me stesso, perché ho retto a un dolore fortissimo. Un anno tra un ospedale e l’altro, io per non ferirlo ho continuato a lavorare, gli portavo le foto delle sfilate, negli ultimi tempi vedevo le lacrime ai suoi occhi. Fu un momento estremamente difficile, che ho dovuto superare anche contro l’opinione pubblica. Sentivo dire: Armani non è più lui, sarà sopraffatto dal dolore, non ce la farà da solo... Anche per questo, a chi mi chiedeva una partecipazione nella Giorgio Armani, rispondevo: no, grazie, ce la faccio da solo». 
Per un anno rimase in silenzio. 
«Ho avuto una forza di volontà incredibile, per vincere questo dolore crudele. Un anno di attesa perché Sergio morisse. E tutto accadde in un tempo meraviglioso, quando stavamo cominciando a essere qualcuno, a dare una struttura all’azienda, a essere conosciuti nel mondo. Era il momento in cui prendevo fiducia in me stesso; e mi è arrivata questa tegola sulla testa». 
Qual era il suo rapporto con Versace? 
«Distaccato. Però c’era una specie di intesa sottintesa. Lo vedevo alla sfilata, lo salutavo da lontano (Armani fa ciao con la mano a Versace), lui mi salutava. Non parlavamo di moda, vivevamo in mondi separati, ognuno però conscio dell’esistenza dell’altro». 
Eravate molto diversi anche come stile: lei essenziale, Gianni sgargiante. 
«Aveva allargato la sua azienda al mondo, anche attraverso i personaggi, da lady Diana in giù. Io allora mi tenevo molto riservato». 
Ha raccontato che non faceva vita mondana per non cadere in tentazione, per restare fedele ai suoi amori. 
«Be’, se decidi di divertirti, ti devi divertire. Gianni credo avesse deciso di divertirsi. Oltre ovviamente a fare cose degne nella moda della donna: non tutto, ma ha fatto qualcosa di estremamente buono». 
Tra voi stilisti italiani avete sempre parlato poco. 
«Non ci si confronta mai, è un mondo chiuso. Si ha come paura di esporre le proprie iniziative, le proprie idee». 
E con Valentino? 
«Un rapporto piacevole, perché è una persona molto carina, pure con me lo è stato. Mi ricordo una colazione a Capri, organizzata da Nino Cerruti, c’era anche Valentino e fu davvero gentile nei miei confronti. Anche adesso ogni anno non manca mai di mandarmi un piccolo messaggio sulle mie collezioni, dice: “Giorgio, bellissima, oltre a farle belle, le cose, le fate bene”». 
E di Dolce&Gabbana cosa pensa? 
«Due furbacchioni. Però li ammiro. Nel bene e nel male, se ne parla. Hanno una clientela diversa, però guardo le loro cose e mi chiedo: ma quale donna le metterebbe? Vedo che ora stanno cambiando». 
Miuccia Prada? 
«Vive nel mondo di Miuccia Prada più che nel mondo vero. Non pensa che quel vestito deve essere portato. Quel vestito le piace, lei se lo metterebbe, esce salutando, ma non ha la percezione di quello che succede dopo». 

Alessandro Michele? 
«Sta cercando una strada che sia la sua». 
Chanel è senza stilista da cinque mesi, qualcuno dice che lei sarebbe stato perfetto. 
«L’avrei fatto volentieri: avrei trovato la pappa fatta. In effetti, diciamolo pure, io gli occhi su Chanel li ho messi. Si copia il meglio. Non si copia la mezza calza; si copia lo stivalone di cuoio. Oggi tante aziende hanno bisogno di un apporto valido, perché quello che si vede sono copie». 
Anche lei è stato molto copiato. 
«Troppo. Per anni, da Calvin Klein, e non solo. Pure quelli di adesso non scherzano. Tanto che mi sento quasi in obbligo di reinventarmi un po’». 
È vero che voleva fare il pittore? 
«Ho dipinto tre quadri nella mia vita. Tre ritratti: la mia pronipote Maria Vittoria; una persona che conoscevo quando ero giovane; e un nobile quattrocentesco. Li custodisco con attenzione e amore». 
Voleva fare anche il regista? 
«Sì, infatti spesso cerco di far diventare la sfilata un po’ più cinematografica, un po’ più visiva». 
Ora andrà a New York. 
«Ho immaginato di costruire una stazione ferroviaria degli anni 40. Con pochi elementi, come il passaggio delle mannequin con le valigie, cercherò di dare atmosfera, di fare una cosa dalla quale uscirà la gente piacevolmente coinvolta. Ho un legame speciale con New York, ero là l’11 settembre». 
Qual è il segreto della longevità? 
«La disciplina». 
È vero che una volta, a un Telegatto, si vide in tv un po’ arrotondato, e iniziò a fare palestra? 
«C’è un momento in cui ti guardi allo specchio e dici: be’, ero diverso. Poi c’è la stampa, che ti ricorda com’eri. E ci sono le foto... un disastro. Però cerco di arginare il problema scegliendo le foto». 
Fa ancora due ore di ginnastica al giorno? 
«Ho cominciato a fare ginnastica seriamente a 50 anni, tutte le mattine. Negli ultimi 15 anni, due volte al giorno, quando mi sveglio e prima di coricarmi la sera». 
Un bicchiere di vino lo beve? 
«Da quando ho avuto un problema al fegato me l’hanno tolto. Ma non mi dispiace, perché il sacrificio personale lo ritengo una vittoria. Anche sugli altri che mi rompono le balle: perché non ne prendi un po’? No, non posso. Perché non vieni al cinema? Non posso, c’è troppa gente. Mi sono imposto una disciplina ferrea». 
È vero che ha sconfitto la malattia con la testa, la volontà? 
«Abbastanza. Volevo guarire, e sono guarito. Devi farti aiutare dalla testa, che gestisce tutto il tuo corpo. Certo, se il problema non è troppo grave. Anche i dutur me l’hanno riconosciuto». 
Lei parla dialetto lombardo? 
«Sì. Quando sono incazzato». 
Come trova la Milano di oggi? 
«Mi piace come la stanno rimettendo a posto, le case restaurate, ma non mi piace la gente che ci gira. Gettano in terra una signora per rubarle la borsa, mettono sotto una bambina con la bicicletta... Non c’è più l’umanità di un tempo». 
E c’è molta trascuratezza: le «donne che sembrano in mutande» di cui ha parlato lei, gli uomini in bermuda... 
«Questo fa parte del mondo che cambia. Non vedo niente di male se uno porta i bermuda anche in via Garibaldi quando la stagione lo permette. Quello che conta è dentro, è la testa. I bermuda non sono un problema, se non vi corrisponde una mentalità un po’ garibaldina, un po’ sfrontata. Una mancanza di rispetto per la città». 
Le manca non avere figli? 
«Moltissimo. Un mio dipendente, Michele, ha una bambina di cinque anni che adoro, la considero quasi come mia, e questo mi ha fatto capire che sarei stato un ottimo papà. Si chiama Bianca». 
Quando ci fu l’incendio a Pantelleria, lei scomparve. Tutti erano preoccupati. Poi lei riapparve: era andato a recuperare un anello. 
«Eccolo qua (Armani indica il suo anulare sinistro). È un anello meraviglioso, con un diamante. Me l’ha regalato Leo, e lo dovevo salvare». 
Quindi lei ora è innamorato? 
«No, sono un po’ indifferente a quello, perché faccio i conti e dico: è inutile essere innamorato e dare poco spazio al tuo amore, perché lo spazio non ce l’ho. Salvo l’affetto profondo per Leo Dell’Orco, che vive da anni insieme a me, e rappresenta la persona a me più vicina». 
Quindi dopo di lei ci saranno Leo e sua nipote Silvana? 
«Ho costruito una specie di struttura, di progetto, di protocollo che dovrebbe essere seguito da chi verrà dopo di me in questa avventura. Due o tre anni come responsabile dell’azienda me li posso ancora concedere; di più no, sarebbe negativo». 
Perché? E se fossero quattro o cinque? 
«Perché non ci dormo la notte. Non conosco più il sonno profondo e sereno di un tempo. Ora di notte sogno, e nel sogno costruisco il mio futuro». 
E come lo immagina? 
«Mi vedo in una delle mie case, accudito da persone fidate. Sul lavoro, mi auguro di non dover più essere io a dire sì o no. Per questo credo che ci siano richieste un po’ più insistite dall’esterno...». 
Quali richieste? 
«Vogliamo far parte del suo gruppo, vogliamo una partecipazione... Ma per il momento non vedo aperture». 
Crede in Dio? 
«Se mi chiedete se la sera, prima di addormentarmi, faccio il segno della croce, la risposta è sì. Ma non ricordando bene come si fa, ne faccio quattro o cinque diversi; uno andrà bene. Se mi chiedete delle istituzioni religiose, non mi piace pensare che uomini di chiesa facciano brutte cose». 
Ma Dio esiste o no? 
«Mi è difficile credere che Dio sia là in alto fra le nuvole, fra le aurore boreali, fra le tempeste. Alla fine sono molto razionale». 
E l’aldilà? 
«Non c’è. Finisce tutto qua». 
La morte le fa paura? 
«È come la morte arriva, che mi fa paura. Non vorrei creare il dramma della morte turbata dal dolore, che metta in estremo disagio chi mi sta a fianco». 
Sul Covid aveva capito tutto: fece la sfilata a porte chiuse, mentre la settimana dopo a Parigi continuarono come se nulla fosse. 
«Sentivo in me la certezza che sarebbe successo qualcosa di grave. Già a gennaio dicevo: ormai il virus è qui. Un po’ veggente lo sono sempre stato. Vedo le cose prima». 
Poi lei scrisse una lettera al mondo della moda, dicendo: rallentiamo, fermiamo questa follia dell’avidità, del business. Però non le hanno dato molta retta. 
«Nessuno rinuncia a quello che ritiene dovuto, ritiene possibile, ritiene migliorabile». 
Ora il mercato è in crisi: chiusa la Russia, ridimensionata la Cina. 
«Hanno puntato tutto sulla Cina, e ora si ritrovano con -30, -40%. Speriamo passi. Noi però non abbiamo mai fatto il passo più lungo della gamba. A differenza di qualche gruppo francese non abbiamo costruito grattacieli; abbiamo fatto un palazzetto a New York, a Madison, di cui avevo capito che sarebbe diventato la nuova Quinta Strada. Altri hanno collezioni di arte, fanno cultura, filosofia. Io disegno vestiti. E ho sempre mirato al cuore delle persone. Oggi vi ho aperto il mio». 
Nel Natale del Covid scrisse un messaggio ai milanesi: io per voi ci sono. 
«Questo è vero ancora adesso. Per strada mi ferma gente molto diversa, dalla signora della Milano bene alla commessa della Rinascente, e questo è curioso perché di solito lo fanno con le star, con i personaggi tv». 
Trump come lo trova? 
«Fisicamente migliorato, perché è meno rosso. Sul piano politico non metto becco, non sono competente». 
E con la Meloni? 
«Non l’ho capita. A volte mi dà fiducia, a volte mi lascia perplesso. Parla, parla; ma deve costruire un po’ di più». 
La Schlein? 
«Interessante. Mi piace». 
Berlusconi? 
«È stato un grande. Poi ha scelto una strada, la politica, che non tutti condividiamo; però nella scelta che ha fatto è stato bravo». 
Gira una sua frase: «La sera vado a dormire pensando: è tutto ridicolo. Al mattino mi sveglio e penso: oggi dove andiamo?». È ancora così? 
«Io il sabato e la domenica sono un uomo disperato. È meglio non starmi vicino, perché il fare nulla mi disturba moltissimo, e quindi cerco disperatamente qualcosa da fare».