Corriere della Sera, 13 ottobre 2024
Navalny e i diari dalla Siberia
È facile farsi ingannare dall’umorismo – mai nero, spesso feroce – delle pagine scritte da Aleksei Navalny durante la prigionia e poco prima, nelle settimane di convalescenza dopo essere stato avvelenato dai servizi russi: leggendo gli estratti pubblicati ieri dal New Yorker e dal Times ci si trova spesso a sorridere – del goffo compagno di cella «Balthazar», della stupidità delle «attività disciplinari», del sarcastico paragone tra la propria vita in prigione e quella tra sbarre dorate condotta da Putin. Del fatto che «alcune persone collezionano francobolli. Altri monete. Io ho una collezione in espansione di processi penali stupefacenti». Così le memorie di Navalny possono non sembrare quello che sono, cioè gli ultimi pensieri di un Nelson Mandela mancato, che dopo tre anni e un mese di detenzione per la sua dissidenza al regime di Putin, in una colonia penale al Circolo Polare Artico, alla fine, è morto. Sulle circostanze della sua fine restano pesanti interrogativi. La vedova Yulia si è detta convinta che sia stato per decisione diretta di Vladimir Putin.
Delle prime pagine trapelate da Patriot, l’autobiografia postuma di Aleksei Navalny che uscirà in tutto il mondo il 22 ottobre (in Italia per Mondadori), è facile anche assorbire le lezioni morali: il prigioniero Navalny capisce che «quella che sto scontando è una condanna a vita, dove la vita o è la mia o è quella del regime», e la cosa più importante da fare, scrive, è «passare subito all’accettazione» saltando il lutto, la collera, le fantasie di vendetta. Pensare di aver vissuto più di quarant’anni, una vita felice e piena di senso, e che la morte davvero ingiusta sia quella di un diciannovenne spedito al fronte in Ucraina, senza averlo nemmeno voluto.
E le lezioni di dissidenza: in uno degli estratti pubblicati ieri sono riportate le pagine sullo sciopero della fame che ha condotto per ottenere una visita medica, «una forma potente e pericolosa di lotta. Non dovrebbe essere intrapresa se non è assolutamente necessario, e se non si è sicurissimi della propria forza e della validità della causa».
È facile, cioè, che passi in secondo piano la disperazione del prigioniero Navalny, che pensa ai figli – Dasha, 23, e Zakhar, 16 – e si tortura per l’impossibilità di abbracciarli ai loro compleanni. «Che razza di auguri patetici sono quelli fatti per lettera a tuo figlio che compie quattordici anni», scrive per esempio il 26 marzo 2022, «che razza di memoria gli lasci della vicinanza con te? (…) Non si scelgono i genitori. A qualche bambino capitano avanzi di galera». E profetizza: «Finirò la vita in prigione e morirò qui. Non ci sarà nessuno a dirmi addio. O i miei cari moriranno mentre sono qui, e non potrò dire addio a loro. Non vedrò mai i miei nipoti. Mancherò da ogni foto».
Il direttore del New Yorker David Remnick introduce il lungo estratto concesso alla rivista con poche righe: «È impossibile leggere questo diario senza essere oltraggiati dalla tragedia della sofferenza di Aleksei Navalny, e dalla sua morte». Avvelenato ad agosto 2020 a Tomsk, in Siberia, con un agente nervino; trasportato poi in Germania, dove viene curato per circa cinque mesi, Navalny torna in Russia appena sta in piedi, insieme alla moglie Yulia. Già all’aeroporto di Seremet’evo viene arrestato per non aver rispettato l’obbligo di firma di una precedente condanna sospesa, mentre era in Germania. «Non sono riuscito a fare nel mio Paese nemmeno un passo da uomo libero», scrive in un altro degli estratti. «mi hanno fermato già prima dei controlli alla frontiera». Condannato prima a tre anni e mezzo poi a 9, poi ad altri 19, vede sua moglie Yulia per l’ultima volta pochi giorni prima dell’invasione dell’Ucraina.
Dopo due anni di detenzione, viene portato in isolamento: il famigerato «Shizo», che per legge deve durare al massimo due sole settimane e in cui Navalny resta per 295 giorni. Completamente solo fino a che nella cella di fronte viene spostato un detenuto psichiatrico «che urla, ringhia, dà colpi, abbaia». Per settimane è il tappeto sonoro della sua detenzione. A marzo 2023, il documentario Navalny sulla sua vita merita l’Oscar, e a ritirare la statuetta, proprio come i premi Nobel per la pace assegnati a dissidenti, va la sua famiglia. Meno di un anno dopo, lui non è già più in vita. «L’Urss è durata settant’anni, i regimi di Corea del Nord e Cuba sopravvivono, i prigionieri politici cinesi invecchiano e muoiono in cella», scrive in una delle pagine più vicine alla fine delle sue memorie. E una delle più amare. «La verità», scrive, «è che sottovalutiamo la forza delle dittature».