Corriere della Sera, 13 ottobre 2024
L’europeismo ha fallito se non ha simboli
Una settimana fa a Pontida Salvini ha lanciato il progetto di una Lega santa dei popoli europei. La parola d’ordine quest’anno è stata la difesa dei confini. Oltre ai magistrati di Palermo il bersaglio è stato, come di consueto, l’Europa di Bruxelles, rea di favorire l’immigrazione e una supposta «invasione islamica».
La Lega cerca spazio, il suo consenso oscilla intorno all’8%. Al raduno hanno partecipato però altri leader di destra che possono contare su quote di elettori molto più ampie: soprattutto l’ungherese Orbán, l’olandese Wilders, l’austriaca Svazek (vicepresidente del Partito delle Libertà, vincitore delle recenti elezioni). L’ondata sovranista non si è fermata, e la creazione del gruppo dei Patrioti nel Parlamento europeo la rende oggi ancora più minacciosa e divisiva. Lo hanno dimostrato il discorso aggressivo di Orbán all’assemblea di Strasburgo e le aspre reazioni suscitate.
«Sovranismo» è una parola nuova, che ha preso piede negli ultimi dieci anni. Il suo significato non è certo facile da comprendere per la maggioranza degli elettori. Con una drastica semplificazione, la destra ha trasformato il termine in una bandiera da sventolare per contrapporre un «noi» (gli italiani) contro un «loro», composto soprattutto da extracomunitari e burocrati di Bruxelles.
Le reazioni degli altri partiti agli slogan di Pontida sono state critiche ma sbrigative: come a dire, le solite «salvinate».
U n atteggiamento poco lungimirante e anzi auto-lesionista. La politica si nutre di simboli, che competono gli uni contro gli altri per guadagnare l’attenzione del pubblico. Allora chiediamoci: quali simboli si oppongono oggi al sovranismo (o a quello più debole di nazione, usato da Giorgia Meloni)?
La prima espressione che viene in mente è «più Europa», la bandiera di Emma Bonino. In giro non c’è molto di più. Le altre forze di centro (compresa Forza Italia) sono eredi della tradizione europeista di matrice democristiana, repubblicana e liberale. Ma non ne indossano sempre il distintivo e sono piuttosto riluttanti a valorizzarlo. Nel campo largo, le parole d’ordine sono invece altre: inclusione, accoglienza, «diritti», pace. Forse c’è il timore che parlare bene della Ue faccia perdere consensi.
La narrazione che proviene da Bruxelles certo non aiuta. Tende a privilegiare le priorità economiche (pensiamo al Rapporto Draghi sulla competitività o a quello Letta sul mercato interno), mentre quelle relative al potere d’acquisto, al welfare e all’occupazione vengono tenute ai margini. Eppure già quarant’anni fa Jacques Delors aveva avvertito che gli elettori non si sarebbero innamorati del mercato interno, bisognava promuovere la dimensione sociale, come pilastro portante del «modello di vita europeo».
Negli ultimi cinque anni, l’Unione ha fatto molti progressi proprio su questo fronte. Pensiamo al programma Sure per finanziare le Casse integrazioni nazionali, investite da uno tsunami di richieste da parte delle imprese durante la pandemia. Poi è venuto il Next Generation Ue, con i suoi 350 miliardi di sovvenzioni a perdere per promuovere ripresa e resilienza. Inoltre, sono state adottate importanti direttive sul salario minimo, sulla conciliazione vita-lavoro, sulle tutele dei lavoratori su piattaforma. Abbiamo sentito qualche leader «europeista» esprimere apprezzamento per queste misure, sottolineando il volto protettivo della Ue? Il Pnrr è principalmente usato come occasione per criticare le inefficienze del governo Meloni. Eppure molti dei progetti sono gestiti da Regioni e Comuni. Possibile che, là dove governano le forze europeiste, non ci sia nulla da «sbandierare» in termini di risultati?
Per contrastare il sovranismo occorrono i buoni esempi, ma anche parole giuste. Nel lessico filosofico-politico, il contrario di sovranismo/nazionalismo è «cosmopolitismo», l’idea che siamo tutti cittadini del mondo, indipendentemente dal Paese in cui viviamo. Il concetto è troppo generico, perciò alcuni suggeriscono di usare «euro-politismo»: l’Unione europea come esempio virtuoso di superamento del particolarismo nazionale, senza però inseguire l’ideale per ora irraggiungibile di una comunità globale.
Converrebbe tuttavia puntare su espressioni più semplici e familiari. Un sondaggio di qualche tempo fa ha testato due immagini suggestive: la Ue come «casa comune dei cittadini europei», oppure quella di un «condominio» in cui i vari Paesi membri e i loro cittadini vivono l’uno accanto all’altro, con rapporti di buon vicinato e cooperazione. Quasi un terzo degli intervistati si è riconosciuto nella prima immagine, un altro terzo nella seconda. Il resto del campione si è distribuito fra un’immagine più fredda (la Ue come area di libero scambio) e un’altra più negativa (una nave che affonda).
Come si vede, la maggioranza degli europei (e degli italiani) non è affatto sovranista. Gli esperti di comunicazione politica potranno esercitarsi nel trovare i simboli più efficaci. Intanto, i leader europeisti farebbero bene a riflettere sulle proprie manchevolezze. In particolare sul loro insufficiente impegno a informare sui successi dell’integrazione e a trasmettere una visione più positiva dell’Unione.