Corriere della Sera, 13 ottobre 2024
I sacrifici, tra sacro e profano
«La manovra richiederà sacrifici», sembra scusarsi il ministro dell’Economia. Le tasse non sono più tasse, sono sacrifici, come se la parola avesse perso il suo significato cruento e l’odore di sangue dell’animale sgozzato, come se la pratica rituale fosse espunta. Nel cercare un contatto fra l’umano e il divino, ovunque nella storia era necessario trovare una vittima da sacrificare. Quando Giovanni Battista vede Cristo venire verso di lui ha l’epifania della sua missione: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29).
Il sacrificio che diventa tassa o «entrata» rientra in una progressiva perdita del senso del sacro e si presenta in altre forme: la parola assume insieme un suono stridente e pomposo. Nella retorica populista, di fronte al fatto che le promesse non si possono mantenere (non ci sono soldi), il sacrificio si ammanta di idealismo e di eroismo: «I sacrifici li devono fare tutti, non mi sembra una bestemmia» (sempre il ministro). Nella retorica comune, invece, i sacrifici li devono fare gli altri.
Chi paga regolarmente le tasse si sente un po’ «l’agnello che toglie i peccati dal mondo»: il suo contributo ha una funzione salvifica, affranca l’evasore, le case fantasma, i clandestini del fisco e permette gli ultimi scampoli di welfare.
Per questo il sacrificio sanguina ancora.