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 2024  ottobre 13 Domenica calendario

Intervista con Filippo Acquarone

(L’Arena, 13 ottobre 2024)
 
 
di STEFANO LORENZETTO
 
Ha ereditato il titolo di duca, ma non gl’interessa e quindi non se n’è mai vantato: «Mi considero un buon democratico, per quanto sia possibile esserlo», si schermisce. Pier Filippo d’Acquarone è il più anziano dei tre figli di Luigi Filippo (1922-1993), conosciuto come «il duca rosso», del quale si favoleggiava che fosse iscritto alla sezione del Pci di San Martino Buon Albergo, la più vicina alla Villa Musella, la magione di famiglia circondata da 400 ettari di tenuta. Figlio di primo letto, ma sarebbe più esatto dire di roulotte: «Credo di essere stato concepito on the road mentre i miei girovagavano negli Stati Uniti. Papà avrebbe voluto andare a vivere nella British Columbia, in Canada».
Nel casato di questo ex giornalista del Tg4, partorito a New York il 26 gennaio 1957, s’è concentrata la storia. Sua madre, Emanuela di Castelbarco Pindemonte Rezzonico, morta nel 2018 a 84 anni, era nata da Wally Toscanini, secondogenita di Arturo, il direttore d’orchestra (la terzogenita, Wanda, sposò il pianista Vladimir Horowitz). Suo nonno, Pietro d’Acquarone, ministro della Real Casa dal 1939 al 1944, fu il regista del colpo di mano avvenuto il 25 luglio 1943 nel Gran consiglio del fascismo, che portò alla caduta di Benito Mussolini e alla nomina del maresciallo Pietro Badoglio a capo del governo. Sua nonna, la veronese Maddalena Trezza di Musella, era l’erede della società anonima finanziaria Trezza, che ebbe in appalto dal Regno d’Italia l’esazione delle imposte in oltre 700 Comuni. Suo zio, Cesare d’Acquarone, già amante dell’attrice Eleonora Rossi Drago, nel 1968, a 42 anni, fu assassinato ad Acapulco, in Messico, mentre nuotava in piscina nella villa dei genitori di Claire Diericx, 26 anni, l’avvenente moglie. Del delitto, le cui circostanze non vennero mai chiarite, si autoaccusò la suocera Sofía Bassi Celorio, che scontò solo 4 degli 11 anni di carcere.
Pier Filippo d’Acquarone si divide fra Milano e Verona. Dei 400 ettari della Musella, oggetto di varie compravendite (da Imerio Tacchella, il padre della piccola Patrizia rapita nel 1990, alla Glaxo; dall’industriale tessile Carlo Bonazzi a un magnate del Kazakistan – pare – che gira con una Bentley Bentayga), a lui ne sono rimasti solo 5, come legato in sostituzione della legittima, con La Busa, la casa colonica dell’ultimo dei 50 mezzadri che un tempo curavano tenuta e campagne. «Pensavo di diventare un coltivatore di vigne e ulivi, ma era un fazzoletto di terra insufficiente per ricavare un reddito dalla produzione di vino e olio, così ora mi è rimasto un solo ettaro. Mi sto attrezzando per lasciare Milano e venire a vivere per sempre qui con la mia compagna».
Nicoletta Gemnetti, della Radiotelevisione svizzera?
Esatto. Ha smesso di lavorare per la tv, per cui sarà più facile. Mi sopporta da 21 anni.
Perché usa questo verbo?
Perché è quello che fa. Non s’impressiona per le mie sfuriate. È un gene che ho preso da mio bisnonno, Arturo Toscanini, soggetto ad analoghe esplosioni di umori. Nicoletta è una donna meravigliosa.
Non è stata l’unica, mi pare.
Il primo matrimonio, con Antonella, la più giovane delle quattro figlie di Federico Gallarati Scotti e Lavinia Taverna, fu dichiarato nullo dalla Sacra Rota per colpa mia. L’avevo avvertita sin dall’inizio: non voglio avere figli fintantoché non sarò in grado di mantenerli senza dover dipendere dagli altri. Per la Chiesa non è ammissibile. È stata una moglie fantastica, ci sentiamo ancora. I suoi adorabili genitori mi avevano in pratica adottato.
Poi sposò Elizabeth Dallimore Mallaby, nata a Verona, conosciuta come Spray Mallaby.
La bionda dei Gatti di Vicolo Miracoli delle origini. Da lei ho divorziato. La conobbi a Rete 4 e la invitai a cena. «Fra una settimana mi sposo», mi gelò fra primo e secondo. Tre anni dopo tornò a cercarmi.
È figlia di una spia.
No, di due: Cecil Richard Mallaby e sua moglie Christine, inglesi. Il padre seguì le trattative fra gli Alleati e Badoglio, che l’8 settembre 1943 portarono all’armistizio di Cassibile.
Le ha dato una figlia.
Viola Veronica. Vive a Milano. Quando era musicista elettronica, si faceva chiamare Veyl. Per la Sony ha curato l’album Mina Fossati e il cd di Enzo Bosso. Ha lavorato per la cantautrice Billie Eilish. Ora è producer alla Universal, fa da balia a star come Mahmood.
Vi vedete spesso?
Un paio di volte al mese. Passa i weekend al Castello di Avio dei Castelbarco. Ci è affezionata, come me, del resto, tant’è che Elizabeth concepì nostra figlia lì. Abbiamo mantenuto l’usufrutto del maniero. Ma, se Viola Veronica non si decide a fare un figlio, lo perderemo. Quando passa di qui, la porto a cena dal Parigin, a Trezzolano.
Lei da piccolo visse nel castello che sua madre poi donò al Fondo per l’ambiente italiano.
Ero lì a 11 anni, il giorno in cui fu ucciso Cesare ad Acapulco. Mamma me lo disse mentre in auto accorrevamo a Verona. Lo zio, fondatore dell’Aeralpi, aveva sposato Claire Diericx, figlia di un diplomatico belga con la faccia da nazista, quando lei aveva solo 19 anni.
Suo padre si rifiutò di partecipare ai funerali alla Musella.
Quando era uscito dalla società Trezza, il fratello gli aveva bloccato i conti bancari. Papà non ha mai creduto che Cesare fosse stato ammazzato «per errore» con cinque colpi di pistola dalla suocera. La Walther 32 non spara a ripetizione.
Che accadde, secondo lei?
Sulla scena del delitto c’erano forse il padre e il fratello di Claire, insieme con la madre. La vedova non ereditò, quindi il movente non va cercato nei soldi. Nel 1973 ebbi un incontro con mia zia in Messico. Intuii che sapeva, ma che non voleva raccontarmi la verità. È morta nel 2005, quasi cieca.
Ha contatti con Chantal, la figlia di Cesare e Claire?
Certo. Mia cugina si divide fra Valcastello, un maniero che il padre le lasciò a San Candido, e Cernobbio. Da ragazzo c’incontravamo sul Montecristo, uno yacht ancorato in Costa Azzurra, dove mia nonna Maddalena Trezza possedeva Villa Isoletta a Èze-sur-Mer.
Ha anche un altro cugino.
Guy. Vive fra Ginevra e il Giappone. È figlio di Maria Maddalena, sorella di mio padre, e del marchese Amaury de Riencourt, scrittore francese. La zia, assai eclettica, stava un po’ a Verona e un po’ a Èze-sur-Mer. Tra i suoi amici più cari c’era lo stilista Karl Lagerfeld, con il quale intratteneva una fitta corrispondenza.
E lei che amici conserva nella nostra città?
I più cari sono Zeno e Vittore, nati dal secondo matrimonio di mio padre, che aveva sposato Maria Emma De Luca, detta Mariucci, sorella dell’avvocato Umberto De Luca e amica di Inge Feltrinelli, presente al suo funerale nel 2004 alla Musella. Zeno è un mago della finanza e un alpinista: ha scalato il Karakorum. Vittore è un brillante avvocato. Con i loro figli mi sento lo zio Pippo. Sono anche legato sin dall’infanzia al conte Lapo Sagramoso, pittore e scrittore. Mio padre e il suo, morto giovane, erano amici fraterni.
Ma è vero o no che suo papà aveva la tessera del Pci?
Io non l’ho mai vista. Simpatizzava per la sinistra e per questo fu ribattezzato «il duca rosso». Era una persona semplice, amante della natura, capace di passare la notte in bianco per aiutare i contadini ad aggiustare un trattore. A Sanremo coltivava le rose e andava a venderle con il motocarro Ape. Si costruì una casetta tra quelle degli operai per non stare nella villa con parco. Girava con la Citroën Ds Pallas o la Fiat 500 Giardinetta, non ha mai avuto la Ferrari. Incontro ancora i suoi ex mezzadri. Per loro resta sempre «il signor duca», in segno di rispetto.
Eppure né suo padre né lei vi siete mai fatti chiamare così.
Il titolo di duca e la «d» apostrofata nel cognome furono concessi nel 1942 da re Vittorio Emanuele III a mio nonno Pietro, che aveva insegnato al principe Umberto di Savoia come si monta a cavallo. I miei si separarono quando avevo 5 anni. Io andai a stare a Roma con la mamma. Fui testimone delle sue storie d’amore, la più lunga con Aldo Borletti, detto Micio, l’industriale delle macchine per cucire dai «punti perfetti».
Ebbe una turbolenta vita sentimentale anche sua nonna Wally. Si mise con il conte Emanuele Castelbarco Visconti Simonetta Pindemonte Rezzonico, il quale per unirsi a lei divorziò da Lina Erba, erede della più grande industria farmaceutica italiana.
Credo che il mio bisnonno direttore d’orchestra ne abbia sofferto. Arturo Toscanini aveva un credo indefettibile: «Una sola famiglia, una sola patria». La figlia, che aveva chiamato Wally come la protagonista dell’opera di Alfredo Catalani, fu corteggiata persino da Gabriele D’Annunzio, ma non cedette mai alle sue profferte amorose: era inorridita dalla bocca del Vate. Fece girare la testa anche a Charlie Chaplin. Charlot la volle conoscere dopo essersi innamorato di un suo ritratto, che tengo nella soffitta di questa casa.
Come si spiega che suo padre, un nobile, fosse comunista?
Ebbe una crisi non appena assunse la carica di presidente della società Trezza. Resistette per un paio d’anni, poi si dimise. Mi raccontò che era rimasto scandalizzato dalla prassi dei suoi dirigenti.
Cioè?
Andavano a trovare i sindaci delle grandi città, recando in dono una Divina Commedia e dicendo: «Legga a pagina 320». Dentro c’era una bustarella che agevolava l’appalto per la riscossione delle tasse.
Gli anziani veronesi hanno un detto: «No go mia le casse del Tréssa», non sono così ricco.
Ricco sfondato. Persino sull’isola di Ponza ho visto, sbiadita dal tempo, un’insegna della società di riscossione dei nonni. La Trezza introitava le tasse in settimana ma le versava alla Real Casa, in seguito allo Stato, solo il lunedì successivo, lucrando sulla valuta. L’incasso procurava in quei pochi giorni interessi stratosferici, subito investiti in case. Fu così che Pietro d’Acquarone mise insieme un patrimonio immobiliare che andava dal Castello di Giove, fra Umbria e Lazio, risalente al 1191, acquistato nel 1936, a un isolotto in mezzo alla Senna in Francia.
Suo padre preferì defilarsi.
Era un puro e un mite. Lo chiamavano Celeste per il colore degli occhi. Un uomo di poche parole, a differenza di mia nonna Wally, gran chiacchierona, che mi costringeva a tapparmi le orecchie per resistere al suo eloquio fluviale. Papà non parlava mai di chi non conosceva. Facevo molta fatica a conversare con lui su un tema che non fosse la caccia.
Lei è cacciatore?
Lo sono stato, ma solo per lo stretto fabbisogno alimentare, non per sport. Spennavo fagiani, scuoiavo lepri, cucinavo, mangiavo. Ora non più, anche se mi farebbe comodo sparare ai cinghiali che mi assediano. Arrivano a tarda sera, in gruppi di 5 o 6. Ho dovuto mettere le recinzioni elettriche.
Chissà se va a caccia anche il kazako subentrato nella proprietà della Musella.
Non credo. La moglie è una fan dell’agricoltura biologica. Pare abbia piantato i rapanelli nei 2 ettari di giardino che mia nonna Maddalena fece disegnare all’inglese Russell Page, il famoso architetto del paesaggio che progettò il parco di Villa Frescot, la residenza di Gianni e Marella Agnelli.
Com’è diventato giornalista?
Per la verità, io avrei voluto fare il regista. Mia nonna ci restò male: «Non sarai mica frocio anche tu come Luchino?». Si riferiva a Visconti, del quale si è sempre mormorato che fosse figlio naturale di mio nonno. Comunque, Wally mi mise nelle mani del suo amico Valerio Zurlini, il regista di Le ragazze di San Frediano e Il deserto dei Tartari. Dovevo essere suo assistente alla regia in Di là dal fiume e tra gli alberi, che però non venne mai girato. Finita la naia come sottotenente della fanteria d’arresto a Cividale del Friuli, dove il nostro compito era di resistere per 7 minuti qualora i sovietici avessero invaso l’Italia, andai a vivere a New York ed entrai alla Rai corporation. Antonello Marescalchi, tra i fondatori del Tg2, mi commissionò un documentario di 3 minuti sulle foche sterminate a colpi di randello in Canada. Ma non lo mise in onda: «Si vede troppo sangue», scosse la testa. Lorenzo Pelliccioli mi assunse a Rete 4, che allora era della Mondadori, per condurre Dentro la notizia, rotocalco settimanale nato dalla collaborazione con la tv americana Abc. Poi arrivò Silvio Berlusconi e fui comprato dal Cavaliere insieme con i mobili.
Com’è che sua madre la fece nascere a New York?
Il mio bisnonno Arturo, molto malato, viveva là e voleva veder nascere il pronipote. Invece venni al mondo 10 giorni dopo la sua morte.
Per quale motivo nel 2014 si dimise dal Tg4?
Intervistai più volte Berlusconi e nessuno mi ordinò mai come farlo. Non leccavo stivali.
Si guadagnò il tapiro d’oro di Valerio Staffelli. Striscia la notizia aveva beccato un suo pungente fuori onda: «Non so perché dobbiamo ancora parlare del dibattito di Berlusconi e Rutelli. Ma chissenefrega!».
Confermo.
Il tapiro d’oro o il commento?
Entrambi. Da Emilio Fede una lezione potevo accettarla: era un fuoriclasse. Da altri no.
Chi sono questi «altri»?
Giovanni Toti, subentrato a Fede, anche se devo ammettere che era un grandissimo lavoratore, e Mario Giordano, nominato direttore tre anni dopo. Di lui non mi piaceva il modo di presentare la politica ai telespettatori. Lo accolsi dicendogli che avrei recuperato quattro giorni di riposo arretrati. Al quarto mi chiesi: ma perché devo tornare a stringergli la mano? E non mi ripresentai mai più in redazione.
Con Fede era diverso?
Avevamo un rapporto schietto, anche se contrassegnato da momenti di elevata ostilità. Una volta mi scaraventò addosso un’intera pila di libri, che purtroppo, anziché me, colpirono il collega Mauro Buffa. Emilio era bastardissimo, come tutti i direttori. Ma, se ti ammalavi, tirava fuori il meglio dall’agendina per farti curare dai suoi amici primari. Molti redattori, io compreso, gli devono la vita. Oggi ha 93 anni. Una collega va sempre a trovarlo e lui non manca mai di mandarmi i suoi saluti. Un’altra pasta d’uomo.
Toscanini fu costretto dal fascismo all’espatrio dopo che a Bologna uno squadrista lo aveva schiaffeggiato per essersi rifiutato di eseguire Giovinezza. Che cosa avrebbe detto del pronipote conduttore di un tg di centrodestra?
Mi avrebbe dato del pirla.
Oggi che fa di bello?
Scrivo per me. Pensieri in ordine sparso che raccolgo qui alla Busa. Magari diventeranno un libro. Ho anche in testa un romanzo legato a un dipinto di Henri de Toulouse-Lautrec.
Le manca la televisione?
Giovanni Floris, che stimo, mi ha invitato tre volte nel suo Dimartedì su La7, ma ho sempre rifiutato. Non mi va di andare a far pubblico parlando di Gaza. Però un programma da conduttore normale, non da protagonista, sulla rete di Urbano Cairo lo farei volentieri.
Vede padri nobili della patria?
Devo cercarli fra i defunti. Conducevo il Tg4 delle 19 quando Giovanni Falcone cadde nella strage di Capaci. Ai suoi funerali, a Palermo, vidi Paolo Borsellino e capii che avrebbe fatto la stessa fine.
Ha contatti con casa Savoia?
Li ebbi con Vittorio Emanuele, la moglie Marina Doria e il figlio Filiberto, ma superficiali.
Pier Luigi Duvina, presidente della Consulta dei senatori del Regno, mi ha detto: «Solo il re è super partes, perché non deve concedere favori per essere eletto».
Perciò esiste ancora il re, da qualche parte. Però non sono monarchico. Ho votato Pri e Pli, mai Forza Italia o la destra.
Essere duca che significa?
Conosco soltanto la nobiltà d’animo e la comprensione verso il prossimo.
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