il Fatto Quotidiano, 12 ottobre 2024
Sandro Veronesi: “I romanzi devono stare su, non a caso”
“I romanzi devono stare su. Le cose non stanno insieme per caso, ci sono leggi che regolano la composizione e l’armonia”. Letteratura fa rima con architettura per un autore come Sandro Veronesi. L’autore, classe 1959 – nato a Firenze da padre ingegnere e cresciuto a Prato –, ripone subito tuttavia la sua laurea in architettura in un cassetto per inseguire tutt’altra vocazione. Approda a Roma ospite di Vincenzo Cerami e per qualche tempo si appropria dello studio e della camera da letto che furono di Pasolini. La nuova vita capitolina è prodiga di frequentazioni. Da una parte il giro del fratello Giovanni, regista e sceneggiatore, con tra gli altri Nuti e Troisi. Dall’altra la redazione di Nuovi argomenti e le cene con Moravia. Tormentato dalla “paura di non essere nulla” prova a cimentarsi con le prime prove letterarie, incoraggiato dall’amico Edoardo Albinati. Entrambi fatalmente premiati anni più tardi al Ninfeo di Villa Giulia. Veronesi ci prende gusto e il premio Strega, al pari di Volponi, lo vince due volte: nel 2006 con Caos calmo e nel 2020 con Il colibrì.
Il debutto è nel 1988 per Theoria con Per dove parte questo treno allegro. Tòpos del viaggio col padre, qui cialtrone e scapestrato. La paternità e i legami filiali restano la traccia costante della sua narrativa. Padri che sono solitamente borghesi, professionalmente realizzati, le cui vite a un certo punto franano sotto il peso di verità taciute o da eventi che spezzano equilibri già fragilissimi. Un campionario che contempla Ennio Miraglia di Venite venite B-52 (Feltrinelli, 1995), farfallone costretto a una fuga da latitante; Gianni Orzan di La forza del passato (Bompiani, 2000 e vincitore del Campiello), scrittore di libri per ragazzi che scopre che il padre era una spia russa al servizio del Kgb; Pietro Paladini di Caos calmo (Bompiani, 2005), manager quarantenne che dopo la morte della moglie sviluppa un rapporto morboso per la figlioletta, e che ritorna a distanza di anni in Terre rare (Bompiani, 2014), venditore per una concessionaria di auto al laccio di un socio truffatore, una figlia scappata di casa, una compagna coatta con la quale va in crisi; Marco Carrera de Il colibrì (La nave di Teseo, 2019), oculista spettatore di tragedie familiari: genitori morti di cancro, sorella suicida, matrimonio a pezzi, figlia che muore dopo il parto. Una cupezza che eguaglia gli spaventosi e misteriosi omicidi che si susseguono nel suo XY (Fandango, 2010). Segno di una versatilità e di una tensione civile che hanno visto Veronesi occuparsi di pena di morte in Occhio per occhio (Mondadori, 1992), sacre scritture in Non dirlo. Il Vangelo di Marco (Bompiani, 2015), emergenza migranti in mare in Cani d’estate (La nave di Teseo, 2018).
Riapproda in libreria per La nave di Teseo con il nuovo Settembre nero. A raccontarsi è Gigio Bellandi, sessantenne docente di letteratura inglese e padre di tre figli, che rievoca l’estate dei suoi dodici anni. Siamo nel 1972 a Fiumetto, in Versilia. Gigio – immerso nella sua formazione tipica anni 70 tra Linus, enciclopedia I Quindici, radio a transistor, palline click-clack – ha una cotta per la tredicenne Astel Raimondi. Insieme consumano i 45 giri dell’epoca e si divertono a tradurne i testi. Frattanto cominciano le Olimpiadi di Monaco e il padre di Gigio, avvocato penalista, si offre volontario per difendere innocenti perseguitati a seguito della tragedia occorsa a Ermanno Lavorini, dodicenne rapito e ucciso (caso di cronaca nera che destò scalpore in quegli anni). A un certo punto “la storia sterza”. Non solo perché quelle Olimpiadi sono funestate dal massacro degli atleti israeliani a opera dei terroristi palestinesi di “Settembre nero”. Un fatto di sangue si consuma parallelamente anche in quell’angolo di Versilia. Le famiglie di Gigio e di Astel, unite da un segreto torbido, finiscono entrambe nel precipizio.
Un romanzo con una magistrale scansione di colpi di scena che si arrende alla tragedia del tempo che passa ma che nel ricordo non smette di passare. Una ferita sempre aperta quella di Gigio Bellandi: “Il punto non è che quelle cose io le ho perdute: le avrei perdute comunque. Il punto è capire se, essendo quel che ero, io potevo o no opporre resistenza alla forza che me le ha fatte perdere in quel modo”