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 2024  ottobre 12 Sabato calendario

Intervista a Ricky Gianco

Sono settant’anni dalla prima volta su un palco: a Varazze nel 1954. Da allora Ricky Gianco non ha mai smesso di cantare e comporre, produrre e proporre in ambito discografico. Trasversale a 60 anni di musica dal rock al pop, al cantautorato impegnato, ha composto, interpretato e consegnato ad altri canzoni indimenticabili: Pregherò, Sei rimasta sola, Pietre, Pugni chiusi, Il vento dell’Est. Ha girato la boa degli 80, qualche acciacco. Ma non è di quelli che si fermano o incupiscono. «Se no, cosa ti resta? Vanoni, una cara amica e una gran donna, è ancora un fiume in piena». Comincia la carriera in una Milano crogiolo di artisti, il Clan di Celentano ma anche Jannacci, Gaber e il Derby.
Parafrasando una sua canzone: a Lodi nel 1943, cosa accadde?
«I miei sono sfollati in campagna per via dei bombardamenti: a Lodi l’ospedale più vicino. All’anagrafe Riccardo Sanna, famiglia di origini sarde con la musica (classica) nel sangue. Terminata la guerra torniamo a Milano: ci stabiliremo in un quartiere borghese abbastanza centrale che però confinava con un altro proletario e malfamato, il Giambellino cantato da Gaber. Miei amici dei tempi: Petruccio dei futuri Dik Dik, Cochi Ponzoni, Moni Ovadia».
Debutto?
«A Varazze, a 11 anni: iscritto a un concorso per voci nuove da un’amica di mamma, mia grande fan».
Come mai il rock?
«Sempre stato un ribelle, fin da bambino. Era un calcio alla cultura ottocentesca che pervadeva il nostro Paese. Allora non lo conosceva quasi nessuno: per ascoltarlo dovevi sintonizzarti (a fatica) su Radio Luxembourg e per i dischi andare a Lugano. La versione originale di Pregherò l’avevo scoperta così».
Fu tra i fondatori del Clan. Ma ne uscì quasi subito. Come mai?
«Non era un clan era una corte con un sovrano. E a me non piaceva affatto essere il cortigiano anche se di un genio assoluto come Adriano. Dopo un anno e mezzo mollai: voleva che passassimo l’estate con lui mentre girava un film. Avevo la mia vita, una fidanzata e un’auto nuova... E poi per fare cosa? Stare a guardarlo come quando giocava a biliardo e ci voleva tutti lì? Io volevo fare, viaggiare, andare in Inghilterra o in America dove la musica “avveniva”, mica passare il mio tempo al bar sotto casa».
Altri esempi del suo dispotismo?
“Pregherò avrei dovuto interpretarla io, e invece dopo due mesi che faceva il nebuloso mi disse che l’avrebbe incisa lui. Io avrei fatto il seguito, Tu vedrai: “Io vendo milioni di copie: anche il tuo disco andrà benone”. Un gran paraculo: una canzone come un film, con un sequel. Malgrado tutto gli voglio bene ma non lo vedo né sento da anni. Altri ex non l’hanno mai perdonato. Gli devo molto per altro: il successo al Cantagiro del 1962, per esempio».
Quello del sequestro in camerino?
«Adriano aveva finto un incidente e aveva passato a me la sua canzone, Stai lontana da me. I melodici Teddy Reno, Claudio Villa e Luciano Tajoli mi tesero un agguato con processo: chi avevamo corrotto perché io, uno sconosciuto, fossi così votato? Riuscii a fuggire e a esibirmi. Loro si presentarono chi invocando una raucedine, chi in pieno agosto avvolto in una sciarpona di lana, chi trascinandosi sul palco a fatica. Che tristezza. Sa chi fu davvero generoso e determinante per me?».
Chi?
«Mike Bongiorno. Fu il primo a farmi esibire in pubblico: lui girava l’Italia sull’onda del successo tv con uno spettacolo di contorno. Era un altruista vero».
Con i “liguri”, in apparenza così diversi da lei, le vostre strade si incrociarono subito.
«Il crocevia fu Nanni Ricordi che aveva tutti in scuderia. Con Gino legammo subito, è un mio fratello maggiore. Allora le canzoni o si scrivevano o si cantavano, lui fu il primo a fare entrambe le cose. Non fu capito subito. Umberto Bindi, gran musicista, era sottovalutato e ostracizzato perché considerato gay. Tenco lo conoscevo bene: allegro e intelligente, era una persona ben diversa da come venne descritta, non certo l’artista torturato “alla Dean”. Per questo ancora oggi sono convinto che non si sia sparato».
Si è dato una spiegazione?
«No. C’è quella pistola, certo. Ma il suicidio non corrisponde alla persona che conoscevo. Anche quello di Paoli: la pallottola vicino al cuore c’è, ma spararsi? E se fosse stato un incidente e basta?».
Altri ricordi legati alle sue canzoni?
«Pietre e quel burlone di Antoine che a Sanremo non sa il testo, perde il pizzino su cui se l’era scritto e allora fa il matto sul palco e con gli orchestrali. Gian Pieretti, che era l’altro interprete, era incavolato nero: “Ha rovinato tutto, mi ha rovinato”. Troppo serio, non aveva capito il tono ironico della canzone, che Antoine rese popolarissima».
E poi?
«Pugni chiusi: dovetti insistere con Demetrio Stratos perché attenuasse l’incredibile potenza della sua voce così sanguigna. Ma mette i brividi ancora oggi».
Dei milanesi area Derby?
«Jannacci. Imprevedibile come artista e come medico. Facemmo una tournée insieme e cercò di uccidermi: mi venne un febbrone da cavallo e lui mi praticò una cura del sudore da cui mi salvarono i miei».
Le venne proposto di aprire i concerti dei Beatles in Italia. Disse di no. Pentito?
«Me lo aveva chiesto il loro promoter italiano, Leo Wachter. Andai a Londra per conoscerli. Li incontrai, simpatizzai con John e Paul (il vero genio musicale), mandai a quel paese Harrison (mi salutò dicendo “ciao pizza, mozzarella e spaghetti”, lo presi come un insulto mentre forse era solo una battuta malriuscita). Comunque: assistetti a un loro concerto, imponente e soprattutto davanti a una folla impazzita. Mi feci prendere dal panico, non mi sentii all’altezza».
Oggi ci sono cause che meritano e per cui si esibisce?
«Emergency. Sono sempre stato un pacifista convinto ma vedo un mondo in caduta libera. La guerra, per esempio: a parole nessuno la vuole, ma non riusciamo a farne a meno. Penso che noi uomini si resti sempre bambini nel profondo, si sappia solo giocare. E le guerre siano la prosecuzione di quell’inclinazione»