la Repubblica, 12 ottobre 2024
Dylan come D.H. Lawrence
È di nuovo la stagione di Dylan! La tappa europea del suo tour ha preso il via a Praga e arriverà nel Regno Unito il 1° novembre, culminando con tre serate all’Albert Hall. L’ultima pubblicazione autorizzata del suo catalogo comprende 27 cd che documentano in modo esauriente – per usare un eufemismo – il suo rabbioso tour nordamericano del 1974 con la Band. Una selezione dei momenti salienti, registrata verso la fine di quel tour, è stata pubblicata come souvenir immediato su Before the Flood. Quindi, gli elementi di maggiore interesse di questa nuova inondazione, appunto, sono le canzoni che non sono state inserite nel precedente doppio album, e non le interpretazioni leggermente diverse di brani già presenti. Di questa maratona di 417 canzoni – più di 24 ore di ascolto – voglio concentrarmi su una sola.
Nobody ’Cept You dura meno di tre minuti, applausi compresi, ed è stata registrata a Chicago il 3 gennaio. Una doppia prima volta, quindi: la serata di apertura del tour e la prima esecuzione dal vivo conosciuta – da sola, con chitarra acustica – di una canzone della seconda serie di rarità di Dylan. Il primo livello comprende le canzoni che non ha mai completato, che non sono state pubblicate ufficialmente e che non sono mai state eseguite dal vivo, il cui vertice è I’m Not There. Seguono le canzoni che, sebbene inedite (fino alla serie dei bootleg), sono state occasionalmente eseguite. All’altro estremo ci sono le canzoni perenni che possono essere ascoltate dalla loro gestazione in studio, attraverso molteplici prove, in forma finita su un album, e che poi sono state eseguite in anni di tournée. Nobody ’Cept You doveva originariamente far parte di Planet Waves, ma non è stata inserita nel disco ed è stata eseguita solo otto volte durante il tour del 1974 prima di essere abbandonata. Se I’m Not There trae vantaggio dal fatto di essere incompleta, di non essere completamente presente, è appropriato che Nobody ’Cept You non sopravviva se non in queste registrazioni: un totale di nove, compresa la prova in studio. Canzone strana, anche per gli standard di Dylan, si apre con la reiterazione – Ain’t nothin’ round here to me that’s sacred – di un sentimento a metà di una sua vecchia canzone preferita suonata subito dopo al concerto di Chicago, It’s Alright Ma (I’m only Bleeding): «È facile vedere, senza guardare troppo lontano, che non c’è molto di veramente sacro». Questo è un tipo di dichiarazione pubblica; qui è un’estasiata dichiarazione di malessere personale, esaltata da una sottile modulazione vocale che, man mano che la routine del tour prenderà piede, lascerà il posto a una tendenza a urlare. Non è solo che niente è sacro; non c’è niente che desideri, niente per cui valga la pena di vivere o morire, niente... Isolata dalla popolarità e dalla fama schiaccianti, dalla curiosità incessante del mondo su ogni angolo della sua vita e del suo lavoro, questa condizione diventa sempre più familiare man mano che Dylan invecchia: il risultato del fatto che è stato al centro di un esperimento unico, contemporaneamente sociale e intensamente privato, che indaga gli effetti peculiari di... essere Bob Dylan.
Siamo tutti più interessati a Dylan di quanto lui possa esserlo a qualsiasi cosa, persino a sé stesso. Non è solo una questione di fama. Abbracciando l’ultra- celebrità, Mick Jagger si è adattato rapidamente al lusso di essere accolto ovunque – tranne, a quanto pare, in uno studio dove Dylan era troppo preso dalla registrazione di Blood on the Tracks per prestargli attenzione. Molte delle cose che la gente sogna – il Premio Nobel! – sono considerate da lui come intrusioni. «Tutti vogliono la mia attenzione, tutti hanno qualcosa da vendere», conclude la canzone. «Tranne te», naturalmente. Secondo questa canzone, composta quando aveva appena 32 anni, è caduto in preda a quel tipo di disillusione e di noia nei confronti di tutto che, sebbene possa affliggere alcuni individui in giovane età, tende a insediarsi più tardi nella vita. Dopo aver elencato altri modi in cui nulla lo interessa – tranne te – e aver ribadito più volte il suo desiderio di questo “te”, la canzone prende una piega anticonvenzionale verso il passato: «C’è un inno che sentivo sempre nelle chiese. Mi faceva sentire così bene dentro di me, così tranquillo, così sublime. Ora non c’è niente che mi ricordi quel vecchio suono familiare. Tranne te, sì, te».
Forse non c’è nulla che ricordi a Dylan quel vecchio suono familiare, ma a me ricorda un saggio di D. H. Lawrence. In Hymns in a Man’s Life Lawrence riflette su come gli inni ascoltati da bambino «significano per me quasi più della migliore poesia». Non ho idea se Dylan abbia letto quel saggio, ma la sovrapposizione tra esso e la canzone è straordinaria. Per Lawrence «la percezione di un bambino si basa sulla meraviglia». Al contrario, «le persone moderne» sono «interiormente e completamente annoiate»; «non sperimentano nulla perché la meraviglia è andata via da loro. E quando la meraviglia si è spenta, l’uomo è morto».
Dylan si trova esattamente in questo stato di accidia diagnosticato da Lawrence. C’è solo la meraviglia della donna su cui si trova a interrogarsi, non come affermerà in una canzone successiva, «per la maggior parte del tempo», ma per tutto il tempo. L’inno che era solito ascoltare rimanda Dylan ancora più indietro nel tempo, in un mondo di meraviglie cadute in disuso ma ricordate: «Mi rotolavo nel cimitero. Danzavo, correvo e cantavo quando ero un bambino. E non mi è mai sembrato strano, ora passo solo mestamente. In quel luogo dove sono ammucchiate le ossa della vita. So che qualcosa è cambiato. Sono uno straniero qui e nessuno mi vede tranne te, sì, te». Sembra che qui ci sia un luogo sacro, se non altro perché – come dice un annoiato e disinformato Philip Larkin alla fine di Church Going – «tanti morti giacciono qui intorno».
Il saggio di Lawrence è stato scritto quando aveva circa quarant’anni, circa dieci in più di Larkin e Dylan quando scrissero le rispettive poesie e canzoni. Parte della pregnanza di questo saggio deriva dal fatto che si sentiva strappare prematuramente dalla vita a cui si aggrappava tenacemente. Fu scritto come parte di una serie di brevi pezzi in onore di Hans Carossa, un poeta e medico che visitò Lawrence in Germania nel settembre 1927.
In Nobody ’Cept You, Dylan – che ha compiuto 83 anni a maggio – subisce una sorta di morte in vita. Nel 1932 Bing Crosby si lamentò (con successo) in una canzone di “non aver avuto una sola possibilità con te”; Dylan è diventato un fantasma la cui unica possibilità o speranza di essere riportato in vita è un fantomatico “tu”. «Le cose sono cambiate», canta, un sentimento che guarda avanti di 26 anni e che viene contraddetto da Things have changed, scritta per il film Wonder Boys, in cui afferma: «Mi importava, ma le cose sono cambiate». In realtà, non è cambiato nulla, visto che nel 1973 non gli importava più di nulla, tranne che di te. Dylan è diventato disilluso, a quanto pare, senza essersi mai illuso. Ebbene, come disse in seguito, citando Whitman, lui stesso contiene moltitudini.
L’interesse amoroso di Nobody ’Cept You è privo degli attributi fisici amorevolmente inventariati a lungo in Sad-Eyed Lady o intravisti in vividi dettagli in canzoni come You’re Gonna Make Me Lonesome When You Go – «capelli cremisi sul tuo viso» – o One More Cup of Coffee: «La tua schiena è dritta, i tuoi capelli sono lisci sul cuscino dove giaci...». Da un lato questo amore è così disincarnato da essere – e visto che si parla di inni, chiese e cimiteri come potrebbe non esserlo? – quasi religioso, traboccante di quello che Lawrence chiama «il senso religioso naturale». Dall’altro, insiste più volte, è del tutto specifico per la persona. In ogni caso, il potere redentivo di questo amore non può essere sopravvalutato. Tutti conosciamo la sensazione di essere intensamente vivi quando ci si innamora. E qui possiamo stringere ancora di più il legame Lawrence/Dylan. Proprio come Lawrence trova che quei vecchi inni significhino per lui più della poesia più raffinata, così, negli stati di maggiore emozione, trovo che Dylan mi parli più direttamente di qualsiasi altro poeta. Che il vostro cuore stia scoppiando di felicità o sia a pezzi per una rottura amorosa, nessuno riesce a esprimere il sentimento meglio di Dylan.
È così che si ascolta Dylan. Le canzoni escono dai dischi come se fossero scritte nella mia anima, da lui a me, da lui a noi. Quindi, rivolgendoci direttamente a Dylan, potremmo dire che nessuno, tranne te, né Shakespeare, né Donne, né altri, mi fa sentire così. Abituale e a volte negligente revisore, il suo approccio al mestiere sembra caratterizzato da una sorta di indifferenza ossessiva, che ci lascia a chiederci in continuazione come sia riuscito a fare ciò che ha fatto. Ci riempie di un senso – è di nuovo Lawrence – di «immutata meraviglia».