Corriere della Sera, 12 ottobre 2024
Picasso lo straniero
Picasso. Una vita da straniero (Marsilio) è il saggio che la scrittrice e storica francese Annie Cohen-Solal, curatrice della mostra in corso a Milano a Palazzo Reale, ha dedicato a un aspetto inesplorato del genio catalano. Un’inchiesta appassionante di 640 pagine, che lei racconta così.
Questo libro è frutto di una lunga indagine. Quanti gli anni di ricerche e quale la ragione che l’ha spinta a investigare così Picasso?
«Il volume è frutto di sette anni di ricerche d’archivio, compreso quello della Prefettura di Parigi. Da tempo mi occupo di storia sociale dell’arte, all’incrocio con la storia dell’immigrazione, e mi interesso di artisti, galleristi, collezionisti che furono anche stranieri. Nel 2014, all’inaugurazione del Museo dell’immigrazione a Parigi, scoprii che a Picasso nel 1940 fu rifiutata la naturalizzazione, ho voluto capire perché e da lì è partita l’inchiesta».
Cosa si temeva da un artista squattrinato?
«Quando Picasso arriva nel 1900 la Francia è un Paese ferito; esce dalla guerra persa contro la Germania nel 1871, dall’assassinio del presidente della repubblica Sadi Carnot nel 1894 per mano di un anarchico italiano e dall’Affare Dreyfus. Gli stranieri sono considerati pericolosi. Picasso arriva grazie ad amici catalani anarchici che vivono a Montmartre, li frequenta, la polizia inizia a pedinarlo; il primo fascicolo su di lui viene aperto nel 1901 e non verrà mai chiuso».
Altri artisti suoi contemporanei hanno avuto lo stesso destino?
«Non direi. Picasso era stigmatizzato per tre ragioni: era straniero, anarchico e poi leader dell’avanguardia cubista. Un nemico, dunque, per la police des étrangers e l’Académie des beaux-arts, due istituzioni che proteggevano la “purezza” della nazione. Nel 1914 diventa ricchissimo e famoso – soprattutto fuori dalla Francia – e questo fa decisamente rabbia ai tradizionalisti».
Questa condizione di esclusione ha influito sulla sua arte?
«Non parlerei di esclusione, ma di vulnerabilità per quanto riguarda la polizia e invisibilità per l’Accademia. Condizione che ha influenzato la sua arte, come si vede nella grande tela del 1905 Famiglia di saltimbanchi della National Gallery of Art di Washington: è l’allegoria perfetta di un gruppo di artisti ai margini della società».
Quali le delusioni per lui più brucianti?
«Nel 1914 vengono confiscate come bottino di guerra le opere cubiste, circa 750, che erano da Daniel-Henry Kahnweiler, suo gallerista tedesco; opere vendute in quattro aste negli anni Venti. Altra delusione cocente nel 1940 quando viene rifiutata l’unica richiesta di cittadinanza, scritta in un momento in cui teme di essere assassinato dai franchisti come lo fu García Lorca».
Quando la Francia ha smesso di considerarlo straniero?
«Nel 1968 con la legge che permette agli eredi di pagare le tasse di successione con opere d’arte. Legge pensata da André Malraux, ministero della cultura, su misura per Picasso. Con quelle opere nasce nel 1985 il Museo nazionale Picasso di Parigi, che ribalta l’immagine di straniero al punto da considerare Picasso, da quel momento, francese».
Lei è venuta in possesso di documenti inediti, quali i più eclatanti?
«Le centinaia di pagine del fascicolo della polizia, che riportano pettegolezzi vergognosi e calunnie; la corrispondenza con la famiglia e le numerose, commoventi lettere con la madre».
C’è un’opera simbolo di Picasso «straniero»?
«Sono diverse: Gruppo di catalani a Parigi (1900) nella prima sala della mostra, il Minotauro cieco guidato da una bambina con fiori (1931), alter ego dell’artista, e la Lettura della lettera (1921), allegoria dell’amicizia tra stranieri e dell’importanza di creare legami».
Perché non è mai più tornato in Spagna?
«L’ultima volta che va in Spagna è il 1934, poi con lo scoppio della guerra civile e la vittoria di Franco sulle forze repubblicane decide di non tornare più. Quando Franco nel 1968 chiede che Guernica, allora al MoMA di New York, venga trasferita in Spagna, Picasso si oppone, dichiarando che non sarebbe tornata in territorio spagnolo fino alla morte del dittatore. E così è stato».
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