Corriere della Sera, 12 ottobre 2024
Intervista a Makka, spiega perché ha ucciso l suo papà e perché non riesce a perdonarsi
«Ho provato una sensazione di paura. Mi sono chiesta: e se i giudici e la gente non capissero quello che davvero è successo?».
Se non capissero cosa?
«Che io quel giorno ho ucciso mio padre perché non avevo scelta e da allora non è per niente facile andare avanti. Svegliarsi e guardarsi allo specchio è diventato pesante, perché non puoi fare a meno di pensare: ma davvero ho fatto questa cosa? Non puoi più essere felice perché ti senti in colpa ogni secondo... Mi sento in colpa malgrado tutto quello che abbiamo dovuto vivere in quella casa...».
Quando Makka Sulaev, 19 anni, dice «tutto quello che abbiamo dovuto vivere in quella casa» parla di un uomo che era espressione in purezza, diciamo così, del padre-padrone violento. Uno che «a volte prendeva mia madre e la trascinava davanti ai miei fratelli maschi per mostrargli come si tratta una donna». Lei capiva al volo se tirava una brutta aria appena lui metteva piede in casa, a Nizza Monferrato dove la famiglia, di origini cecene, si era trasferita da anni. Se andava bene erano soltanto urla, nei giorni peggiori erano lividi per sua madre: «Quando picchiava usava la tecnica del pugno forte sulla bocca dello stomaco, che impediva di respirare», ha spiegato Makka agli inquirenti e al suo avvocato, Massimiliano Sfolcini.
Così fino al 1° marzo 2024, il giorno in cui la ragazza lo uccise a coltellate durante l’ennesima lite fra lui e la madre, e dopo che lui aveva giurato alla moglie via Whatsapp: «Appena arrivi a casa ti stacco la testa». Era arrabbiato perché lei aveva osato rimproverarlo per essersi licenziato e le mandò una raffica di messaggi minatori che lei girò uno dopo l’altro a sua figlia. Makka era terrorizzata e, convinta che lui avrebbe ucciso la madre, uscì di casa a comprare un coltello e lo nascose in camera sua (da qui la premeditazione). Quando la donna tornò a casa lui l’aggredì con tutta la furia che poteva.
Le mise le mani al collo...
«E allora io l’ho colpito con due pugni. Era la prima volta e non se l’aspettava, era sbalordito. È venuto verso di me, mi ha afferrata per i capelli e buttata per terra, mi ha presa a pugni. Mia madre tentava di allontanarlo da me... A quel punto ho preso il coltello...».
Due giorni fa l’inizio del processo per omicidio volontario aggravato davanti alla Corte d’Assise di Alessandria...
«Ho guardato i giudici negli occhi, mi ispirano fiducia anche se ci sono rimasta un po’ male perché hanno detto no alla richiesta di scuola in presenza e per la motivazione che hanno dato».
Cioè, quale?
«Dicono che in situazioni di stress potrei essere di nuovo aggressiva. Li capisco, però. Ancora non mi conoscono, hanno davanti un’imputata per omicidio...».
Qual è stato il passo più duro dal giorno dell’omicidio a oggi?
«Riascoltare la voce di mio padre. Mi ha scioccata. L’ho risentita dopo tutti questi mesi perché, per motivi di difesa, ho tradotto dal russo gli audio che ho registrato quel giorno durante la lite e i suoi vocali Whatsapp inviati a mamma. Quei vocali sono agghiaccianti: dice delle cose terribili ma sembra che stia parlando del più e del meno. Sono andata a letto con la sua voce nella testa, l’ho sognato...».
Le minacce
Ho dovuto riascoltare la sua voce negli audio che ha mandato a mamma È stato agghiacciante
Lei è agli arresti domiciliari, giusto?
«Sì, ai domiciliari con braccialetto elettronico a casa di un’amica di mia madre. Posso vedere soltanto lei, i miei fratelli e una professoressa».
Se partiamo dal reato commesso va detto che la giustizia finora è stata clemente. Non era scontato.
«Sì, lo so. E sono grata a tutti per questo. Dimostrerò che meritavo la loro fiducia».
Lei porta il velo per scelta o è un’imposizione di suo padre da cui non si è ancora liberata?
«È una mia libera scelta, sono musulmana credente e ci tengo molto. Mi sento più bella, con il velo».
È pentita per quello che ha fatto?
«Non c’è un solo giorno in cui non mi tormenti pensandoci. Ogni volta che chiudo gli occhi rivivo quel momento e mi chiedo: c’era un modo diverso per proteggere mamma senza arrivare a quella tragica fine? Mi sentivo persa, disperata, come se non ci fosse più una via d’uscita. Togliere la vita è qualcosa di irreparabile, qualcosa che non si può più cambiare e forse nemmeno perdonare. Non c’era amore tra noi, non c’era affetto, c’erano solo paura, violenza fisica e psicologica, ma uccidere... quello no, non è giustificabile; mi rendo conto e mi prendo tutte le responsabilità».
Quindi la risposta è sì, è pentita.
«Lo sono, profondamente. E vorrei poter tornare indietro. So che il mio pentimento non potrà cambiare le cose né liberarmi dal peso che ho dentro e dal rimorso che provo. Credo che se non fosse andata così il giorno dopo i giornali avrebbero scritto dell’ennesimo femminicidio o magari di un duplice o triplice omicidio, e la nostra famiglia sarebbe comunque rimasta macchiata di sangue. Al posto mio oggi al processo ci sarebbe mio padre...».
Che cosa ricorda quando pensa a suo padre?
«Se ripenso a lui non riesco a vedere solo l’uomo che ci faceva soffrire, c’è una parte di me che ricorda anche altro. Ma soprattutto vedo un uomo che non c’è più, che io ho fatto sparire, e mi tormenta l’idea che magari quel giorno poteva esserci un’altra soluzione».