Corriere della Sera, 12 ottobre 2024
La memoria della tragedia e lo sguardo su noi stessi
Nel maggio 2016, durante una visita ufficiale a Hiroshima, Barack Obama pronunciò un discorso, che venne prontamente elogiato dall’allora segretario dell’associazione Nihon Hidankyo, Terumi Tanaka.
La mattina seguente, rientrando a casa in treno, Tanaka rilesse il discorso con più attenzione, tradotto in giapponese: «Settantun anni fa, in una luminosa mattina senza nuvole, la morte cadde dal cielo», death fell from the sky. Si accorse di aver sbagliato, di essere stato affrettato nel suo elogio. Il 6 agosto 1945 su Hiroshima, e il 9 agosto su Nagasaki (la città dove Tanaka tredicenne era sopravvissuto), la morte non era affatto «caduta dal cielo». La morte, sotto forma delle bombe Little Boy e Fat Man, era stata gettata da un cacciabombardiere americano, su target scelti con lo scopo esplicito di massimizzare la devastazione e lo shock dei giapponesi. L’eufemismo di Obama, la morte che cade dal cielo, conteneva tutta l’ipocrisia del mondo occidentale riguardo agli attacchi atomici, un’ipocrisia che durava da oltre settant’anni.
Nel febbraio 2022, quando per il libro che stavo scrivendo ho contattato l’associazione Nihon Hidankyo in cerca di un hibakusha (un sopravvissuto alle bombe A), la minaccia nucleare sembrava passata di moda. Gli arsenali erano più pieni che mai nonostante le politiche di disarmo, e nessun elemento dava ragione di pensare che l’umanità fosse uscita dall’Era Atomica (non ne uscirà mai), ma di bombe nucleari non si parlava più. Il «tabù nucleare» sembrava funzionare e la logica della deterrenza per garantire la pace, almeno fra i Paesi più forti del mondo, non falliva da decenni. Finché, il giorno 24 di quello stesso febbraio, con l’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Federazione Russa, il tabù si è d’un tratto infranto. Sui giornali si è iniziato a parlare del possibile uso di «armi nucleari tattiche», e la garanzia di pace della deterrenza si è tramutata in un istante nel suo contrario.
Le ore in cui ho intervistato Terumi Tanaka su Zoom sono state impregnate dalla realtà che si produceva lungo il confine est dell’Europa. Ho chiesto a Tanaka di raccontarmi la sua storia di sopravvivenza con la massima precisione di cui era capace. Sapevo che lo aveva fatto molte volte, ma lui non ha dato alcun segno di impazienza. Alle sue spalle era appeso un senbazuru, una ghirlanda di mille origami di gru, lo stesso origami che è il simbolo dell’associazione Nihon Hidankyo. Completato un senbazuru, si dice, un desiderio verrà esaudito.
Terumi Tanaka ha parlato incredibilmente a lungo per un uomo della sua età, s’interrompeva solo di tanto in tanto per bere dell’acqua. Ascoltandolo, mi sono reso conto che ogni dettaglio della sua testimonianza operava in me un rovesciamento, o almeno un completamento di ciò che prima sapevo: il flash dell’esplosione diverso da qualunque altra luce, la casa di Terumi così malridotta da convincerlo che una bomba ci fosse piombata sopra, il corpo della zia Koto identificato solo grazie al disegno di un kimono che possedeva, tatuato sul polpaccio dalle radiazioni...
Mi sono reso conto che prima sapevo molto di Los Alamos e dei fisici ma molto poco di Hiroshima e Nagasaki, che avevo visto decine di immagini dei B-29 in cielo e delle città rase al suolo, ma pochissime delle persone, dei cadaveri e dei sopravvissuti, dei malati di leucemia, dei cheloidi sfiguranti. Il racconto occidentale delle bombe A, con poche eccezioni, era stato bonificato prima del mio arrivo, escludendo il più possibile le vittime e la loro individualità, accorpandole nelle almeno centomila morti dirette e nelle incalcolabili morti successive – numeri che fornivano un’idea di magnitudine ma non trasmettevano il dolore. Perché era stato fatto? Perché ci sentissimo meno responsabili? Non lo so, ma tant’è. Sulla schermata di Zoom, Terumi Tanaka mi stava raccontando le bombe atomiche per la prima volta.
Non mi stupisce che alla notizia del Nobel uno dei presidenti di Nihon Hidankyo insieme a lui, Toshiyuki Mimaki, abbia fatto riferimento ai bambini uccisi a Gaza dai bombardamenti israeliani. Quel genere di distruzione totale, i bambini bianchi di polvere: tutto questo non può non risvegliare memorie strazianti negli hibakusha. Anche nel caso di Gaza, poi, le vittime sono spesso un aggregato numerico, le bombe trattate come se «cadessero dal cielo» ineluttabilmente.
Anche Robert Oppenheimer, dopo Hiroshima, si rifugiò in un’analogia divina, nel suo caso di stampo vedico, simile a quella della morte che cade dal cielo: «Adesso sono diventato Morte, il distruttore di mondi» eccetera. Un’immagine efficace ma menzognera, perché la bomba A non aveva nulla di divino, era umana, profondamente umana. Forse era l’atto che staccava irrimediabilmente l’uomo da ciò che aveva prodotto, perfino da sé stesso, ma restava umana, com’è umana oggi. Il Nobel per la pace alle voci infaticabili di Nihon Hidankyo ce lo ricorda: la bomba A è umana, la volontà di produrre bombe di ogni tipo e poi di sganciarle è umana, e la provenienza delle bombe è specifica, sempre. Lo era a Hiroshima e Nagasaki, lo è a Gaza.
«Non c’è nulla di più caratteristico di noi, uomini di oggi, quanto l’incapacità della nostra anima di rimanere up to date» scriveva Günther Anders nelle riflessioni più importanti che siano state fatte attorno alle bombe nucleari. Valeva alla fine del Novecento e continua a valere. Anzi, mi sembra che solo i sopravvissuti, con i loro racconti e tutti i dettagli che contengono, ci permettano di rimanere «up to date» in un mondo così, e che solo riascoltarli ancora e ancora possa impedire alla nostra anima di non scollarsi del tutto dal contesto.
Ma ormai gli hibakusha sono anziani, fra poco perderemo anche l’ultimo di loro. Avverrà nel silenzio e nella distrazione generale, ma si tratterà di un cambiamento epocale. In un attimo avremo perso tutti i dettagli rivelatori che non conosciamo, e avremo perso qualcosa di ancora più prezioso – uno sguardo su noi stessi, un freno. Il Nobel per la Pace a Nihon Hidankyo è uno dei molti modi di prepararsi a quel momento. Ma ne servono tanti, ovunque, collettivi e istituzionali e individuali. Servono la letteratura e il cinema e le altri arti, perché l’Era Atomica non vada avanti dentro una memoria ferma.