Corriere della Sera, 11 ottobre 2024
Intervista a Federica Luna Vincenti
ROMA Mamma casalinga, papà impiegato alla Telecom, il fratello infermiere, ha messo in piedi un film da 13 milioni, venduto in 50 Paesi. E la foto di L’ombra di Caravaggio campeggia alle sue spalle, in ufficio. Federica Luna Vincenti, produttrice, attrice, cantante, compositrice e ora studia come direttrice d’orchestra. Si presenta in cravatta, forse per chiarire il piglio «virile» con cui dispiega il suo talento multiforme. Ha 41 anni, suo marito, Michele Placido ne ha 37 in più; si lasciarono alcuni anni fa, crisi superata. Erano 33 quelli che dividevano Luigi Pirandello dalla sua musa ispiratrice, l’attrice Marta Abba per cui scrisse quattro commedie. Eterno visionario, uno dei film più attesi alla Festa del cinema di Roma, e nelle sale dal 7 novembre, parte da loro due.
Federica, lei interpreta Marta Abba, con cui Pirandello aveva un ambiguo gioco delle parti.
«Un amore dirompente e impossibile. Amore platonico che prendeva vita solo nelle parole della scrittura, o amore vero? Noi lasciamo la porta aperta. Non si sa cosa sia successo fra loro in un hotel sul lago di Como, non possiamo saperlo. Tutto è pirandelliano, perfino l’amore. Raccontiamo l’umanità, le passioni, le ossessioni del grande drammaturgo».
Valeria Bruni Tedeschi è strepitosa nell’interpretare la moglie pazza.
«Eh, lei ha una marcia in più. Quelle parti poi le vengono benissimo. C’è qualcosa di Ingmar Bergman nel film, che è un ritratto intimo, privato di Pirandello».
Lei debutta in un film.
«Sono subentrata a Miriam Leone, che era rimasta incinta. Sarebbe stata perfetta. Abbiamo fatto dei provini, ho voluto farne anche io uno».
Quindi la produttrice che fa il provino a sé stessa?».
Sorride: «Durante il Covid mi era già capitato di sostituire tre attrici malate. Stavolta si avvicinava il primo ciak. È la prima volta che Michele mi prende in un suo film».
Dove vi siete conosciuti?.
«Recitava a Parabito, dove sono nata. Avevo 19 anni. Lo rividi l’anno dopo a Roma. Abitavo in un pensionato con altre allieve dell’Accademia. Al matrimonio a Cisternino, dove cantò Al Bano, c’era la gente sui tetti delle case».
Una ragazza accanto a un attore così amato.
«È stata una montagna da scalare. Ero timida, non avevo autostima. Ho dovuto indossare una corazza, mettermi in disparte e sostenere con una scelta naturale il grande talento di Michele, far sì che le radici attecchissero. Sarebbe stato facile avere una prima parte in uno dei suoi film».
Lei da dove è partita?
«Dall’Accademia d’arte drammatica, il mio demone è il teatro, la recitazione e il canto, sono legata a Brecht e nel nostro film c’è un cameo con la voce di Ute Lemper. Ho recitato con la Melato e Albertazzi, poi è accaduto qualcosa di magico. Ero a teatro a Parigi, per Il visitatore di Schmitt, e guardai lo spettacolo con gli occhi di chi vuole seguire il percorso creativo dall’inizio. Diventai produttrice per piccole serate. Avevo 8 mila euro sul conto».
Pochini per quel mestiere.
«Ipotecai un immobile in Puglia, chiesi un prestito bancario. Andai avanti senza l’aiuto di nessuno. Michele? sulla produzione non ha mai voluto mettere bocca. Era un’avventura mia, legata a spettacoli con messaggi inquietanti, non convenzionali, universali. Quest’anno facciamo Orwell, 1984. A teatro ho prodotto Ambra Angiolini sul bullismo e su Franca Viola, prima donna che rifiutò il matrimonio riparatore, e Marco Bellocchio per Zio Vanja...».
Le piace avere il controllo.
«La carriera d’attrice era riduttiva, recitare non mi bastava, e forse non mi sentivo particolarmente talentuosa. A teatro, al Franco Parenti, sarò l’imperatrice Sissi. C’è anche un’altra ragione. Quando mia madre si ammalò di tumore, non ressi lo stress e il dolore. Smisi di recitare perché sviluppai una rara malattia neurologica, ebbi una crisi su quello che volevo fare. Mi sono ricordata di un insegnamento di mamma: brucia i soldi che non contano niente, gettati nei progetti più grandi e irrealizzabili. Pregiudizi? Eccome se ci sono stati. Il più tenero è che approfittassi di Michele. Ma la più vecchia tra noi due, con i miei acciacchi fisici, sono io. La mia risposta è stata quella di lavorare».
E la sua femminilità?
«Forse si vede nel film, la femminilità che non tiro fuori nella vita. Vado avanti su un percorso non stereotipato; sono concreta, granitica, rigida perché la notte i problemi di budget non ti fanno dormire. Pensare che fino a 25 anni ero di una timidezza incredibile. Lavoro con 12 donne (un caso che lo siano) e Gabriele, il figlio mio e di Michele».
Lavorare in famiglia?
«Abbiamo un’intesa artistica viscerale, Michele mi dice sempre: quando recito mi fido solo di te. Così mentre si truccava mi diceva di impostare una scena o di sistemare le comparse. Poi abbiamo i nostri litigi, lui dopo mezz’ora dimentica tutto, io tengo un po’ di più il broncio».
Ma ’sta cravatta...
«Non c’entra nulla. Però sono rigorosa, ho il senso della disciplina, sennò in questo ambiente ti sbranano. È la vita che mi ha plasmato».
Cosa vi unisce?
«Gabriele, e una profonda cicatrice, il dolore per la perdita, al settimo mese, di nostra figlia. E ho partorito. Sono cose che non si possono raccontare come una partita di carte. Quel dolore alla pancia, quell’emotività così nuda e forte la vivo ancora oggi su ogni mio progetto».