Corriere della Sera, 11 ottobre 2024
Intervista a Giuseppe De Rita
Tutti abbiamo un momento che ci ha formato e definito per sempre. Per Giuseppe De Rita, 92 anni, otto figli, il primo vero imprenditore che l’Italia abbia avuto nell’arte di capire la società e battezzarne i fenomeni con nomi nuovi e spiazzanti – il Censis è creatura sua – quel momento è stato un soggiorno estivo a Sermoneta. Nel castello dell’americanissima contessa Margherita Caetani, divenuta italiana avendo sposato il duca Roffredo, signore di quella rocca. In seguito i Caetani avrebbero avuto un ruolo mai del tutto chiarito nel tentativo di salvare Aldo Moro. Ma allora, nell’immediato dopoguerra, nel castello si tenevano corsi per ragazzi e ragazze liceali organizzati dall’educatore e poeta Cecrope Barilli. Quell’uomo e quel luogo deviarono il corso della vita di De Rita. A Sermoneta si cantava, si ballava, si discuteva. Si gettavano – un po’ senza saperlo, un po’ volendolo – le basi di una classe dirigente. De Rita la chiama un’oligarchia: ma virtuosa. Lo racconta lui stesso nella sua autobiografia Oligarca per caso (Solferino), scritta con Lorenzo Salvia e in uscita oggi nella collana Ritagli diretta da Massimo Franco.
Voi teenager del ’51, dice lei, eravate «ancora tutti semifascisti». Che significa?
«Al liceo un po’ di qualunquismo lo avevamo respirato. Cecrope lo capì e la prima sera ci fece trovare un reduce di Auschwitz, a raccontarci. Sermoneta era organizzata da un misterioso Movimento di collaborazione civica. Non so se fosse una creazione angloamericana per insegnare la democrazia alle nuove leve. So che era uno spazio di circolazione orizzontale: nel Movimento c’era un comunista come Franco Rodano, che poi scriveva pezzi dei messaggi natalizi di Pio XII, o un futuro segretario della Dc come Guido Gonella. Impensabile oggi».
Della Caetani si diceva fosse una spia americana. Durante il sequestro Moro arrivarono a Roma l’agente di Londra Hubert Howard, che era suo genero, e un sospetto dirigente del Kgb, il direttore d’orchestra Igor Markevitch, anche lui imparentato con i Caetani.
«Furono immessi nel circuito per salvare Moro, probabilmente erano vicini a un accordo per portarlo in Vaticano. E invece no, lo ammazzano e glielo lasciano proprio in via Michelangelo Caetani, altro esponente della famiglia, sotto la lapide del Centro studi italo-americano, anche quello creatura della principessa Caetani. È possibile che lo sfregio non fosse verso il Pci, la cui sede stava a 50 metri, o verso la Dc che stava a 150 metri. Era ai Caetani».
Che senso avrebbe avuto?
«Nessuno mi leva dalla testa che nel delitto Moro ci fosse molto più fascismo che comunismo. Che ci fosse un rigurgito d’anteguerra. Una sorta di qualunquismo antiamericano».
La «circolazione orizzontale» è la cifra della sua vita: lei è il solo a essere stato vicino a Prodi e Berlusconi, ai dirigenti comunisti e al cardinale Ruini, a De Mita e a Craxi. Qual è il segreto?
«La dimensione orizzontale ha bisogno di un alone di mistero; io non l’ho costruito, mi si è fatto intorno perché restavo fuori dagli schemi. Fuori dalla sociologia, dall’economia, dalla politica. Devi essere capace di non stare al gioco: quando tutti si lamentavano che le multinazionali scappavano, negli anni 70, noi raccontavamo un’Italia che campava bene, che stava nel sommerso, coltivava il localismo. Per fare circolazione orizzontale devi avere un brand, essere un riferimento per una cosa».
Così lei diventa «oligarca per caso», essendo nato piccolo borghese. Al tempo di Putin, oligarca suona brutto. Lei come lo intende?
«L’oligarchia è fatta di persone che hanno una loro personalità e un rapporto orizzontale di fiducia: non mafiosa, ma fiducia. Magari non sono amiche fra loro, ma si riconoscono per la stessa cultura».
Fatta di cosa?
«Di volontà di far bene alla cosa pubblica».
Lei ha voluto diventare oligarca o davvero lo è «per caso»?
«Non ci si diventa per volontà. Puoi diventare per volontà presidente del Consiglio, al limite presidente della Repubblica. Ma non puoi diventare oligarca, perché un oligarca è riconosciuto come tale in una dimensione orizzontale di simili. Non te ne puoi appropriare in verticale: puoi fare il capo con i tuoi gerarchi; il Lollobrigida di turno è un gerarca, ma non sarà mai un oligarca perché nessuno in orizzontale gli riconosce uno specifico valore».
Esempi di oligarchi illustri?
«Che so, io sono stato molto amico di Antonio Maccanico, probabilmente uno degli oligarchi più riconosciuti. Come segretario generale, con la sua cucitura orizzontale, è stato determinante per il Quirinale di Pertini. Gianni Letta, lo stesso. Nell’Italia che contava qualcosa non c’è nessuno che non abbia conosciuto Gianni Letta».
Lei dove si mette in questa rete?
«Quando fondammo il Censis nel ’64 eravamo 14 licenziati dalla Svimez. Pasquale Saraceno, capo della Svimez, diceva in giro che eravamo degli avventurieri, che non saremmo durati. Invece negli anni 70 la mattina alle otto prendevo il caffè con Andrea Monorchio. Lui il potere lo aveva davvero, era alla ragioneria, io no. Ma ci riconoscevamo».
Quando capì di avercela fatta, di essere nell’oligarchia?
«Quando alla seconda edizione del Forum Ambrosetti a Cernobbio mi invitarono a parlare del sommerso. E poi mi rinvitarono. Sentivamo Berlusconi che cantava mentre Confalonieri suonava il piano. Agnelli mi chiamava “l’amico degli stracciaroli di Prato”. Ma ero lì e la sala faceva clap clap».
Lei scrive che una società complessa come l’Italia non si può gestire in verticale. Ma, appunto, ha bisogno di una rete orizzontale. Questa oligarchia virtuosa esiste ancora?
«Subito dopo la guerra c’era un’oligarchia di gente come il banchiere Mattioli, l’allora Monsignor Giovanbattista Montini, Saraceno, Guido Carli. De Gasperi capiva che ne aveva bisogno, li lasciava operare. Poi nei momenti di crisi torna sempre l’idea di risolvere verticalizzando: trovare quello che sa e tiene tutto in mano».
Oggi si chiama governo tecnico.
«O premierato. È l’idea che la società è troppo complessa o che c’è da qualche parte un centro di potere alternativo che non conosco e non mi riconosce. E allora bisogna accentrare. Gli oligarchi sono il contrario, sono la rete orizzontale che vive nel disordine, nella complessità, ma poi finisce per governare di più».
Il potere verticale in Italia non funziona?
«Uno dice: mi ricreo il potere andando in verticale. Poi non ce la fa. Abbiamo avuto la personalizzazione contro Renzi al suo referendum costituzionale, c’è già contro Giorgia Meloni. E se anche ce la facessero, poi si ritrovano a dover gestire i gerarchi, perché quelli avranno aiutato nell’impresa. E i gerarchi sono i più fessi e i meno leali».
Meno leali?
«Mussolini insegna. E invece no, il potere c’è, esiste. Ma oggi è nelle filiere produttive, nelle grandi piattaforme, tutte entità orizzontali. Il potere sta lì, non nel Parlamento, nell’elezione diretta del leader: tutte cose che, per carità, tra trent’anni ne parleremo ancora quando io sarò morto da un pezzo. Ma non è il punto».
Qual è allora?
«È che secondo me la Meloni, per fiuto, quando parla con gente come Larry Fink di Blackrock, o altre piattaforme estese, è perché ha capito che l’influenza è lì. Se si mette in posa estasiata di fronte a Elon Musk, forse è perché ha capito che lui fa parte di un potere che magari non si conosce bene, ma probabilmente può più della lotta per il premierato. Se la guardo in faccia, lei è furba: sta in due staffe. Quella tradizionale della verticalizzazione e l’altra delle piattaforme, dei fondi, delle filiere».
A proposito: lei in vita sua ha legato con tutti, ma con i post fascisti no. Com’è?
«Perché si erano nascosti. Io Colle Oppio lo vivevo perché mia moglie abitava lì vicino. Ma loro non stavano nel mondo. Colle Oppio è stata una segregazione per l’autoconservazione e trent’anni dopo, se ne esci, magari hai pure un mercato. In questo hanno avuto bravura e fortuna: avendo mantenuto la fiamma ancora in servizio, nel momento in cui serviva c’era. Ma per chi ha vissuto normalmente, loro non erano normali».
Con i suoi otto figli, come si sente in quest’Italia senza bebè?
«Li ho voluti e mi sono piaciuti, anzi ne volevo dodici».
Ma si sente superato?
«Chi se ne frega se sono superato. Questa denatalità riflette una mancanza di desiderio, siamo una società senza intenzione. L’intenzione di portare a letto una donna o di fare soldi è facile, ma è l’intenzionalità profonda che manca: vale per i singoli e per la società nel suo insieme. La tragedia di questo Paese è di non avere obiettivi collettivi, non ha un’intenzione di diventare qualcosa».
Lei racconta che il suo matrimonio creò tensione con le vostre famiglie d’origine. Perché?
«Mia madre era convinta di dovermi far sposare qualcuno di sua fiducia. Ha odiato regolarmente mia moglie. Ma odiava anche il mio primo amore, perché mia nonna materna era morta in clinica psichiatrica e questo mio primo amore aveva un padre anche lui con problemi psichiatrici. Mia madre pensava che un matrimonio fra noi sarebbe stato fucina di scompensati mentali. Resi chiaro che avrei fatto ciò che volevo. Ma il vero conflitto poi fu da sposato, dal nostro terzo figlio in poi. Secondo loro ne facevamo troppi».
Lei scrive: come cattolico non posso essere per l’eutanasia, come Giuseppe De Rita è diverso. Che significa?
«Il problema è la paura di soffrire, non la morte. Di sofferenza ne abbiamo avuta tutti poca. Non ci siamo spezzati la schiena nei campi, abbiamo viaggiato in comode auto. Tutta la vita è stata un evitare il dolore e la fatica, perché dobbiamo farne per morire? Nella società il desiderio di libertà di morire in un certo modo io lo sento».