Libero, 11 ottobre 2024
In morte di Hiroshi Shirai, cintura nera
Martedì 10 ottobre, l’altro ieri, se n’è andato sereno, potente e mite, l’uomo che ha fatto capire a tanti milanesi il significato della parola forza, kime, nella arti marziali. Un maestro, una guida. Sensei di karate shotokan, cintura nera decimo dan. Vorrei raccontarvi perché non smetterà mai di essere il punto centrale dell’equilibrio anche di chi scrive. E perché qualche lacrima è scesa spontanea.
Il 6 agosto 1946, quando gli americani sganciarono la bomba atomica su Nagasaki, un bambino di otto anni evitò di subire il dramma perché era in gita con i genitori. Ciò non toglie che io da quando conosco quel “bambino” non ho mai smesso di pensare che una pioggia di radiazioni lo avesse comunque colpito e dotato di superpoteri. Il nome? Hiroshi. Il cognome? Shirai. Hiroshi Shirai, nato a Nagasaki, Giappone, il 31 luglio 1937, sotto il segno del leone. «Ero a 49 chilometri di distanza» mi raccontò quando nel 2000 lo intervistai per il mensile GQ diretto da Andrea Monti (l’unica che abbia rilasciato a un giornale non di settore, spiegò incredula una karateca agonista. Capiremo un giorno il perché: il Maestro Shirai non fa mai niente a caso). Le foto le fece nella palestra di via Friuli, a Milano, dove insegnava, Efrem Raimondi, che allora era uno dei fotografi di Vasco Rossi.
Per fortuna i genitori, forse il karma, forse il caso o il destino, il 6 agosto 1946 portarono il piccolo Hiroshi fuori porta. Perché quando ho scoperto la sua scuola, oggi Fikta (Federazione italiana karate tradizionale e affini), ho capito che cosa significhi stare al proprio posto. E oggi ho il titolo per provare a insegnarlo ad altri.
Shirai arrivò in Italia nei primi anni ’60, con il Maestro Taji Kase (scomparso il 24 novembre 2004.) per farci conoscere l’efficacia e la profondità del kara-te shotokan del Maestro Gichin Funakoshi. Kara-te, due parole in una. Kara significa vuota, nuda, te vuol dire mano. Combattimento (contro più avversari), a mano nude, vuote. I 27 kata, le forme, il kumite, il combattimento… La pemanenza di Shirai in Italia doveva durare sei mesi. Invece ci è rimasto tutta la vita. «Per amore degli allievi» mi confidò durante l’incontro del 2000. E non solo. A Milano ha trovato anche l’”amore”. La sua bella famiglia: la moglie, due figlie e un figlio, tutti campioni di karate, ovviamente, hanno dovuto confrontarsi con un padre e con un marito che praticamente per tutta la vita si è allenato ogni giorno per quattro ore, svegliandosi la mattina alle cinque. Non è stato semplice per loro. Ma neanche per i suoi allievi. E per gli allievi dei suoi allievi. Però superare un esame sostenuto sotto gli occhi di Shirai, beh, vuol dire qualche cosa. E io, umilmente, so di che emozionante carezza dell’anima e dell’autostima si tratti. Immenso. D’altronde la squadra italiana è stata a lungo la più forte del mondo e oggi è ancora tra le più competitive.
Generosamente la cronaca di Libero mi ha concesso 4500 battute. La ringrazio, anche se per descrivere la forza in persona ci vorrebbero libri o, almeno, un docu (a cui sto già lavorando). Potrei raccontare la sua semplicità, i suoi sorrisi felici quando, nel 2011, gli chiesi di farsi fotografare, in karategi (l’abito del karateca), con il mio figlio più piccolo, che allora aveva cinque anni e che voleva quella foto come regalo di Natale. Il figlio, per intenderci, guarda caso, che il 14 luglio 2023 mi ha salvato la vita. Potrei farvi sorridere con un paio di aneddoti che ben lo descrivono ai tempi in cui era davvero era opportuno stargli a debita distanza. Per esempio. Lite a un parcheggio con il solito arrogante. Un suo allievo stava per reagire. E Shirai «Lascia stare, lui non sa che può morire». Oppure, si narra, che durante un allenamento colpì un praticante avanzato con qualche tsuki (pugno) e geri (calcio) in pieno: tenete conto che l’impatto di un pugno del Maestro Shirai corrispondeva a circa mille chili. Il malcapitato negli spogliatoi si sarebbe lamentato dicendo «Io gli sparo!». A quanto mi risulta Shirai era a una decina di metri dallo spogliatoio. Improvvisamente si aprì la porta. Entrò. E... «Prima che tu me sparare, io te uccidere». E poi: «Da oggi tu allenatore squadra agonistica». Leggenda? Episodi che si sono ampliati passando, nel tempo, di bocca in bocca? Può essere. Ma ci stanno tutti nella personalità unica e irripetibile di Hiroshi Shirai... Ah, dimenticavo: quando ho dato la seconda volta (la prima mi aveva rimandato) l’esame per ottenere il quarto dan per un attimo ho avuto anche io un piccolo superpotere. In mezzo al rumore provocato da decine di atleti che praticavano, quando ho terminato la prova di kata, ho distintamente sentito la voce del Maestro dire: «Si vede che ha fatto forte». Non ho bisogno di altro.