Corriere della Sera, 10 ottobre 2024
Biografia di Chiara Caselli
Passa per essere inquieta e ombrosa, a me è sembrata, malgrado le ferite che in tanti hanno come tatuaggi dell’anima, solare, piena di luce. Forse è una conquista dell’età. Chiara Caselli, da ragazzina, nella sua Bologna, era una di quelle gatte silenziose con l’istinto di libertà che ti sfiorano senza toccarti, ti passano accanto e non te ne accorgi, ma è sempre stata lì a guardare. Ora siamo noi a guardarla nella sua maturità. Ha deciso di non nascondersi più, e di raccontarsi. In un flash, mentre prepara una tazza di tè nella sua casa a Trastevere, la ripensiamo ragazza. Nei suoi primi passi d’attrice, il suo volto aveva assunto le sembianze di un misto di porcellana e acciaio. Che infanzia ha avuto?
«Molto protetta. I miei hanno avuto tre figli, uno dopo l’altro. Origini umili. Ricordo che da ragazzina ereditavo i pullover dei miei due fratelli, allora si portavano con delle strisce colorate che nel tempo si sbiadivano».
Suo padre cosa faceva?
«Era figlio di un barelliere d’ospedale e di una casalinga, cominciò come professore di francese al liceo, ma studiando in età adulta, diventò medico. Quando perse sua madre, mia nonna, si creò una ferita profonda, ebbe problemi psichici e la mia infanzia protetta andò in frantumi. Quel buco in cui si sprofonda chiamato depressione ebbe degli aspetti violenti. E la mia vita cambiò. All’epoca non c’era la dimestichezza con cui, oggi, si parla di queste cose».
Lei quanti anni aveva quando accadde?
«Ero in età di transizione, prima adolescenza. Avevo bisogno di attenzioni, mia madre era con un marito che aveva bisogno di aiuto. Mi sono sentita abbandonata».
Che educazione le avevano dato?
«Rigida. Era una famiglia cattocomunista dell’Emilia-Romagna. Da bambina mi negarono l’abbonamento a Topolino perché ai loro occhi era un simbolo del consumismo. Lo stesso per gli spot di Carosello in tv. Mai visti. Alla Befana avevo la calza piena di libri. Il mio preferito era Il cavaliere inesistente di Italo Calvino. Quando lo lessi a mio figlio Teo, che oggi ha 20 anni, capii delle cose che mi riguardavano da vicino. Avevo un’immagine mentale di me, una condottiera bianca alla conoscenza del mondo, un senso di avventura».
Certo suo padre è una figura potente.
«Amava la musica classica, anche quella impervia. Ascoltava Stockhausen a tutto volume. Gli dissi: o me o lui. E, a 19 anni, andai via di casa».
Più o meno è l’età in cui, molto presto, cominciò a recitare.
«All’ultimo anno di liceo frequentai una scuola di teatro. Capii che recitare mi permetteva di dare forma al mio violento mondo interiore, che non aveva avuto modo di esprimersi. La recitazione è un alibi perfetto: sei tu, ma con un altro nome e un’altra storia. Debuttai a Bolzano con un collage di poesie. Lì una troupe tedesca cercava un’attrice per una serie tv, Il nido, su persone che convivono senza nessun legame di parentela. Girammo a Wiesbaden, piccola, noiosissima cittadina termale».
Cosa ricorda del suo esordio?
«Mi ritrovai nella stanza d’hotel dove andava la nobiltà e dove Dostoevskij aveva scritto Il giocatore, délabré, il tappeto inchiodato, la poltrona sfondata. Tornata in Italia, Citto Maselli mi propose un piccolo ruolo in Il segreto. Fu il mio esordio. Avevo 22 anni. La protagonista è Nastassja Kinski. Era bellissima, e piena di insicurezze».
Dice spesso che Bernardo Bertolucci è stato così importante per lei, però non ci ha mai lavorato.
«È importante perché mi impose al produttore Amedeo Pagani il quale per La domenica specialmente di Marco Tullio Giordana voleva Monica Bellucci. Tirò giù il grande schermo che aveva in casa, e mostrò al produttore il mio provino sul monologo finale, molto complesso. Si riaccesero le luci e Bernardo disse: non ci sono dubbi, la tua protagonista è Chiara».
Lei che tipo era da ragazza?
«Selvatica, timida. Determinata? Mica tanto. Perché include una capacità di strategia e costruzione di sé che non è parte del mio carattere. Quando morirono i miei genitori, cominciai a scrivergli lettere che tuttora conservo, dove parlo di me e di loro».
Andando via di casa così giovane...
«Si creò una rottura totale, come se avessi deluso le aspettative di mio padre, che mi vedeva medico come lui. Quei segni di abbandono sono i semi che hanno preso forma attraverso le cose che ho fatto».
L’analisi?
«Sì, l’ho fatta. Ma serve da giovani, quando può offrire soluzioni e scioglie nodi che altrimenti ti porti dietro per sempre».
Ha sempre avuto voglia di fare l’attrice?
«La fiducia la riacquistai dopo l’incontro con Liliana Cavani. L’avevo persa durante OcchioPinocchio di Francesco Nuti. Un’esperienza devastante. Dico solo che, oggi, in un mondo in cui la mentalità rispetto agli abusi è profondamente diversa, Nuti avrebbe avuto una denuncia. Avevo 26 anni, ero giovane. Lui non c’è più e non voglio aggiungere altro».
Incontrò Harvey Weinstein, l’orco di Hollywood.
«Lo incontrai a New York e... non ci provò, se è quello che volete sapere. Dopo avermi vista nel film corale di Marco Tullio Giordana mi chiamò per Pulp Fiction. Nel provino le battute me le diede Quentin Tarantino, il regista, secondo una modalità che in Italia non c’è. Al provino non presero me ma (come moglie di Bruce Willis), Maria de Medeiros. A Weinstein in seguito mandai il mio primo cortometraggio come regista, Per sempre, che racconta la fuga d’amore di due bambini. Mi disse che provava a mandarlo a Hollywood per un’eventuale candidatura agli Oscar ma non c’era tempo».
Lei da tanto vorrebbe fare anche la regista.
«Il film è scritto, è la storia di una donna in tre diverse età della sua vita guardata attraverso la cosmologia, che è una mia passione. Si intitola L’isola. Avevo il cast, Geraldine Chaplin, Emmanuelle Devos, Riccardo Scamarcio prima che esplodesse, Elisa la cantante, con l’intesa che lei mi avrebbe insegnato a cantare e io a recitare».
Perché il progetto saltò?
«Il produttore, Marco Muller, fu nominato direttore alla Mostra di Venezia, non aveva più tempo e questo complicò le cose. Ricordo le riunioni con i coproduttori che volevano impormi cambiamenti alla storia. Avevano un’aria di sufficienza, come a dirmi: sei una bella donna, fai l’attrice e ora vuoi pure fare la regista?».
Ora in che fase della vita è?
«Sto bene, da qualche anno sono “mediosola”, cioè non single al 100 per cento, ho un figlio che amo, studia psicologia, ha una fidanzata fantastica, l’ho cresciuto da sola che aveva 3 anni, un impegno duro anche fisicamente. Ho avuto per tanti anni un compagno, Jacopo Quadri, che non era giusto come secondo padre».
Film in uscita?
«Due, quello di Elisabetta Sgarbi, L’isola degli idealisti, alla Festa del cinema, ed è curioso che abbia interpretato lei nel film sui suoi genitori realizzato da Pupi Avati, con cui ho appena girato un terzo film, L’orto americano. Pupi è unico».
Lui scrive benissimo, da umanista beffardo.
«Interpreto una vedova allegra nel dopoguerra, la didascalia di una scena dice: sale le scale muovendo il sedere come una che la dà facilmente. Solo che tutto questo non c’è, lui pensava all’ambiguità di quella donna. E nel Signor diavolo, dove sono una donna aristocratica con un’ombra cattiva e piena di dolore, avevo un monologo di sei minuti. Mi disse: Caselli (chiama sempre per cognome), come siamo messi con la memoria? Motore. Buona la prima. Passiamo alla prossima scena».
I registi le chiedevano sempre di spogliarsi.
«Il mio corpo è un personaggio, se c’era necessità, nessun problema. Ricordo Belli e dannati di Gus Van Sant, eravamo nudi, io e Keanu Reeves, lui bello, sicuro di sé, con un rispetto totale del mio corpo. Io, una pischella di 23 anni. Tutto naturale. Invece fui in forte imbarazzo, mi spiace dirlo ma è così, con Michelangelo Antonioni, in Al di là delle nuvole».
Era il suo ultimo film.
«Vedevo un uomo, in quelle condizioni fisiche così precarie, attaccato alle attrici, filmava i nostri corpi con una certa morbosità. Per fortuna sua moglie Enrica e Wim Wenders, che collaborava, ebbero cura di me».
Ha un’amica attrice?
«Amanda Sandrelli, che è più di un’amica, è una sorella. L’ho conosciuta 30 anni fa, appena arrivata a Roma. Ricordo anche una lontana estate, bella e divertente, con Paola Cortellesi e suo marito Riccardo Milani. Mio figlio aveva due anni, poi entrai nel vortice orrendo della mia separazione e i contatti tra noi si persero, ma sono felice del suo successo meraviglioso».
Lei è anche una brava fotografa, espone dalle Gallerie fino alla Biennale Arte di Venezia. Ma una immagine cristallizza un istante nell’eternità. Lei invece è sempre in fuga da qualcosa.
«Ora non più, non sono più in fuga, e vorrei lasciare il mistero su questo tema, che mi entra dentro, dell’immagine cristallizzata in contrasto con le mie corse. Penso di essere una strana fotografa. Ricordo quando, in una scatola di cartone, trovai il velo da sposa di mia madre, poco dopo che morì nel 2016. E lo ritrassi. Per mesi, se dovevo partire, lo portavo con me. Poi una notte in campagna l’ho appeso a un albero di ciliegio in fiore e l’ho fatto volare, l’ho fatta volare. Ho fatto volare mia madre».
Strano che l’isola ricorra spesso nei suoi progetti...
«Per anni andavo in vacanze soltanto sulle isole. Un mondo completo ma circoscritto. Se lì mi sentivo protetta? Una tesi interessante ma non è così. Malgrado la sua severità, ricordo tanti abbracci di mio padre».
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