La Stampa, 10 ottobre 2024
Intervista a Sandro Veronesi
Sandro Veronesi, come Paolo Volponi prima di lui e nessun altro dopo di lui, ha vinto il Premio Strega due volte. La prima nel 2006, con Caos Calmo, e la seconda nel 2020, con Il Colibrì. Ha esordito a poco meno di trent’anni e ha avuto successo quasi subito: questo ha fatto di lui, per la critica italiana, un giovane scrittore. E Giovane scrittore, per la critica italiana, è stato fino a poco tempo fa un genere letterario minore, uno scaffale sul quale depositare la nuova letteratura senza prendersi cura di capirla, facendo in modo che restasse periferica, velleitaria. In un articolo pubblicato su L’Unità nel 2005, intitolato Smettetela di chiamarci giovani scrittori, Veronesi, allora trentaseienne, scrisse che il significato sottinteso di «giovani» era «che possono aspettare». Quando parla di ragazzi, Veronesi, che è toscano e ha cinque figli, usa sempre la parola figlioli, mai giovani. Chiama figliolo anche Gigio Bellandi, il dodicenne protagonista del suo ultimo romanzo, Settembre nero, appena uscito per La Nave di Teseo, ambientato nell’estate del 1972, quella in cui i suoi genitori, senza volerlo, senza saperlo, gli rovinano il debutto nell’adolescenza e lo costringono a passare dall’infanzia all’età adulta. È un romanzo sulle famiglie borghesi italiane negli anni Settanta e sull’ipocrisia, il perdono, l’egoismo, il soccorso. È una storia sulla relazione tra vita e destino.
Veronesi, siamo o no padroni di quello che ci capita?
«Non capisco l’ansia di tutti di autodeterminarsi: a me sembra chiaro che il grosso del lavoro lo faccia quello che chiamiamo destino».
Cos’è il destino?
«Una forza che possiamo condizionare due o tre volte nella vita. Per il resto, possiamo deviarla per provare a intervenire. Il punto è che non abbiamo mai la certezza che il nostro intervento migliori le cose. Anzi, il più delle volte le peggiora, tanto per noi quanto, soprattutto, per gli altri».
Quindi non è vero che possiamo fare tutto.
«Sì che possiamo. Dopo, però, dobbiamo accettare di subirne le conseguenze».
Il suo protagonista, Gigio, dice a un certo punto di voler tornare al momento in cui capì di «essere uscito dalle preoccupazioni» dei suoi genitori, per dire loro come agire e risparmiargli la delusione.
«Noi trasmettiamo ai figlioli una grande ipocrisia: che loro siano sempre al centro delle nostre decisioni, che tutto quello che facciamo, lo facciamo pensando al loro bene. E loro ci credono perché, per i figli, i genitori sono nati insieme a loro. Ma i genitori hanno vissuto 30 o 40 anni prima, soli, per proprio conto. Quindi per i genitori non pensare ai figli è un’abitudine del tutto normale e legittima, mentre pensare ai figli è un esercizio, uno sforzo che alcuni fanno meglio, altri peggio. Madre e padre non pensano ai figli quando litigano, quando decidono di trasferirsi, quando decidono cosa mangiare. Al massimo si dicono: se sto bene io, staranno bene anche loro. Quale genitore eviterebbe di traslocare se sua figlia gli dicesse di non farlo perché si è innamorata del vicino di casa o perché è affezionata a quel palazzo?».
C’è differenza tra padre e madre?
«Certo che sì. Ed è prima di tutto linguistica, espressiva. Per questo nel romanzo tanto Gigio quanto la ragazzina si cui è innamorato, Astel, parlano con le proprie madri un’altra lingua. Che è quella dell’affetto e dell’intesa unica che l’affetto consente di creare. I padri in quegli anni erano diversi, avevano un ruolo normativo e mai curativo: lo so perché sono stato bambino allora. E mi sono reso conto, scrivendo questo libro che ha come fonte principale la mia memoria, che in tutti i miei ricordi d’infanzia io sono o solo con mia madre o solo con mio padre, mai con entrambi e mai con uno di loro e mio fratello. Credo dipenda dal fatto che noi ricordiamo nel modo o in cui ci rappresentiamo, e cioè: unici, protagonisti principali».
Donatella Di Pietrantonio ha scritto su questo giornale di aver perdonato sua madre e la sua freddezza, perché ha capito che a farla soffrire non era tanto la distanza di lei, quanto le sue aspettative eccessive di bambina, il suo desiderio di essere il centro, il bene primario.
«Esatto. Sta lì il punto di svolta nella relazione con le mamme e i papà».
Si parla troppo di come bisognerebbe fare i genitori e troppo poco di come bisognerebbe fare i figli?
«È inevitabile: i bambini sono sempre innocenti. Mio padre diceva che i figli sono come i salvadanai: quello che ci metti dentro, ci ritrovi. La prima impronta gliela lasciano i genitori. E non è un male: quando Gigio perde tutto quello che si è conquistato da solo, è quell’impronta a salvarlo».
Chi è un bravo genitore?
«So solo che mi piace l’idea di un genitore che prova a non rovinare la felicità degli altri. A non disunirsi».
E la libertà? C’è un modo di dosarla?
«Negli anni Settanta non si dosava. Ora non solo si dosa: ora si comprime. E non lo fa solo la famiglia: lo fa il mondo intorno. Nel 1972 potevi scappare di casa e difficilmente ti avrebbero ritrovato. Astel sogna di andare a Londra e non tornare mai più. Una tredicenne, oggi, non ci penserebbe neanche: sa che verrebbe rintracciata dopo poche ore. Ha un orizzonte più limitato, forse inibitorio».
Di quella libertà così assoluta e grezza lei sente la mancanza?
«Io non ho alcuna nostalgia, anzi. Certo, quando salgo sul motorino con mio figlio e devo mettermi il casco, dentro di me mi dico: accidenti, come sarebbe bello poter sentire il vento tra i capelli, lasciatemi rischiare di morire in pace. Ed è un pensiero stupido, da boomer. Però lo faccio. La libertà di cui godevamo negli anni Settanta è diventata presto libertà di farci del male: ci si drogava, si fumava, si abusava della plastica senza sapere che danni facessero tutte queste cose, senza porsi il problema delle conseguenze. Eravamo predatori, sboroni, incoscienti. Illusi di avere sempre ragione».
E felici?
«A momenti. Come in tutte le epoche e in tutte le vite. Ma vivevamo anni bui, violenti, durissimi. La musica, però, era eccezionale. Usciva un capolavoro a settimana. Non è mai più successo. Non c’è mai più stato tanto fervore. Diventavi te stesso leggendo da capo e fondo Linus, che ti indirizzava alla controcultura ed era bellissimo, una vera rivoluzione. E però non ne è rimasto niente, abbiamo sprecato tutto, abbiamo fallito».
Non siete riusciti ad abbattere neanche i piccoloborghesi.
«Che sono tornati in grande spolvero, vedo».
Con qualche differenza?
«Una e drammatica: non ci sono alternative. Negli anni Settanta c’erano i borghesi, ed erano tantissimi, ma c’erano anche gli operai. C’era la miseria e c’era l’aristocrazia. E c’era la lotta di classe. Ora siamo un indistinto corpo sociale in cui ciascuno recita parti omologate, tutte fintamente felici, sui social network. Il bovarismo, la capacità di credersi diversi da quello che si è, come lo ha inventato Jules de Gaultier, ha cambiato vettore: proiettiamo l’idea che vorremmo avere di noi nelle rappresentazioni inerti di noi. Prima, invece, il padre di Gigio Bellandi rappresentava ciò che voleva essere in carne e ossa, andando fuori con la barca, mettendosi in pericolo, facendo il piacione. Sua moglie andava a sfogarsi bestemmiando in cabina, al mare, di modo che nessuno la vedesse e avesse mai il dubbio della sua buona educazione. Anche perché era straniera, e sapeva di essere, per questo sospetta. Una spiaggia della Versilia bene del 1972: un girone di classisti e razzisti in parte legittimati e in parte inconsapevoli».
Che scena, quella, con Gigio nascosto sotto le scale che sente sua madre dire parolacce per la prima volta e crede che lei ce l’abbia con qualche maniaco che la importuna.
«E quando lo racconta ad Astel, cambia le frasi. Dice: “bonificai”».
Anche lei ha bonificato le occorrenze della parola “negro”?
«La madre di Astel è una donna di colore. Ho deciso di usare nero anziché negro, sebbene negli anni Settanta tutti usassero negro, sia in senso spregiativo che non, e sebbene la woke culture abbia posto l’attenzione sulla necessità di non usare più né nero né negro. E sa una cosa? Sono d’accordo con la woke culture».
A un certo punto c’è un incidente terribile. Un ragazzo muore in spiaggia e suo padre salva l’altro ragazzo che era con lui. Cosa ha immaginato che potesse smuovere un padre in una tragedia così?
«Prima di tutto la conoscenza. Quel padre è il solo a sapere, in quel momento, che suo figlio è morto ed è il solo a sapere come fare per salvare l’altro ragazzo senza che venga anche lui inghiottito dalla sabbia. Volevo dire così che la conoscenza può essere più forte dell’emotività. È questo che fanno gli eroi: pospongono la propria disperata emotività alla conoscenza. E poi credo che per un padre che ha perso un figlio, salvare qualcun altro sia la cosa più preziosa di tutte, e infatti è molto frequente che i genitori che perdono i propri bambini, si dedichino poi a salvare gli altri, dopo un po’ di tempo. In quella scena, invece, succede subito».
Succede per istinto?
«Esatto. Pensiamo sempre che l’istinto umano sia egoista, crudele, ferino, mors tua vita mea. Sbagliamo. L’uomo non tende ad affogare l’altro: tende a salvarlo».