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 2024  ottobre 10 Giovedì calendario

Intervista a Dante Spinotti

Dante Spinotti, lei che ha firmato la fotografia di filmoni come Heat – La sfida, L’ultimo dei mohicani e L.A. Confidential, come sta il cinema?
«Ha avuto delle dure botte: il Covid, gli scioperi a Hollywood. Per fortuna, Barbie e Oppenheimer sono stati successi di cassetta. A Los Angeles abito a due passi dall’American Cinematheque: Ford, Hitchcock, persino Manhunter che ho fatto con Michael Mann, le proiezioni sono sempre piene. Vedere un film in sala rimane un’esperienza straordinaria, perché c’è un bel sonoro, un’immagine grande, e un sacco di altra gente. Questo non morirà mai».
Lei come contribuisce?
«Ho due film, per la regia di Barry Levinson: Alto Knights con Robert De Niro (sui boss italoamericani Frank Costello e Vito Genovese, ndr) uscirà a marzo 2025; l’altro, sul set a dicembre, si chiama Assassination, rielabora una sceneggiatura di David Mamet e contempla una teoria alternativa sulla morte di Kennedy».
Il più formidabile regista per cui ha curato le luci?
«Non la si può mettere così, ognuno ha le sue qualità e anche qualche debolezza. Non c’è il più grande in assoluto, ecco se avessi lavorato con Stanley Kubrick – ma quello faceva quel cazzo che voleva lui. O Fellini».
Michael Mann, con cui ha collaborato a più riprese?
«Uno straordinario maestro, che ha sempre portato avanti un discorso linguistico, facendosi ammirare dai giovani studenti e influenzando altri autori».
E in Italia?
«Non sono così aggiornato, sono rimasto ai bravissimi e sodali Tornatore, il compianto Ermanno Olmi e Benigni, un campione e un essere umano fantastico».
Nient’altro?
«Mi è abbastanza piaciuto quel film in bianco e nero diretto da una donna… sì, C’è ancora domani di Paola Cortellesi, anche se si capisce un po’ come andava a finire. Ah, ho trovato straordinario (ci mette un po’ a ricordare, ndr) l’esordio di Giulia Steigerwalt, Settembre: un grande talento narrativo, una grande simpatia umana. Chi fa il cinema deve amare i suoi personaggi – era così per Fellini, per Kubrick, che ne indagava violenza e intelligenza».
Liliana Cavani?
«Una intellettuale, con un senso estetico accentuato: visivamente, il suo Interno berlinese è una delle cose migliori che abbia fotografato».
Con Lina Wertmüller quarant’anni fa perfeziona Sotto… sotto… strapazzato da animala passione.
«Mi ha insegnato tanto, Lina. La vivacità del racconto, un tipo di linguaggio: a lei piacevano questi enormi primi piani ravvicinati… Attraverso lei, ho conosciuto Veronica Lario, e quindi Berlusconi. Un furbone».
Furbone?
«Faceva un sacco di battute, very funny. Ho realizzato due pubblicità con lui, prendeva in giro una sua consigliera, che gli dava suggerimenti ‘faccia così, si muova colà’, al che Berlusconi la rimbrottò: ‘Signora, se io fossi a letto con lei, e dovessi ricevere questi insegnamenti, non so come reagirei, no?’».
Invece con la Lario?
«Silvio veniva sul set, Veronica era magnifica, una bellezza unica. Credo rimase il suo ultimo film, sul set era incinta di Barbara, per le scene finali dovemmo usare una controfigura».
Attraversiamo l’oceano, De Niro e Al Pacino?
«Ho fatto tre film con ciascuno: sono strepitosi, ma diversissimi. De Niro è silenzioso, concentrato; Pacino è esplosivo, arrivava sul set e non capivi se stesse recitando o fosse semplicemente sé stesso».
Ci ha fatto amicizia?
«Ci siamo rivisti l’anno scorso a Cincinnati con De Niro e ci siamo abbracciati: emozionante ritrovarsi, ma in America i rapporti sul set sono di lavoro, molto professionali, per dare all’interprete il maggior comfort possibile. Non è come nei piccoli film italiani, dove si diventa un po’ tutti amici».
Altre differenze tra noi e loro?
«Il successo. Da noi è visto in maniera conflittuale: ‘È pieno di soldi, ha la macchina grossa, sicuramente ruba allo Stato’. In America, dove è davvero difficile non pagare le tasse, il successo è un pregio, un complimento per una persona, non un motivo di invidia. È come a Napoli, dove i ricchi stanno al terzo piano, ma poveri e benestanti tutti escono dallo stesso portone: Oltreoceano l’adagio è “datti da fare e il successo premierà anche te”».
Parlando di successo, Steven Spielberg l’ha incontrato?
«In una saletta riservata all’aeroporto di Van Nuys, avevo fatto Spiagge di Garry Marshall dove accostavo i capelli rossi al fondo verde, e Steven mi rivelò la sua avversione per quel colore. Veniva da Parigi, aveva rinunciato a prendere per un bel po’ di milioni di dollari un Monet, o forse Manet, proprio perché il dipinto aveva una parte di verde».
Alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone è ospite per la seconda volta: quale affezione?
«I silent films. Quando si vedono gli inizi di qualcosa, si capiscono molti aspetti: intimi, importanti. La tecnologia ha cambiato tantissimo, anche i linguaggi, e nel muto se ne riscontrano gli effetti: è la nascita, l’epifania del cinema».
Quale attrice degli albori avrebbe voluto inquadrare?
«Non credo si possa annoverare nel muto, ma non ho dubbi: Marlene Dietrich».
 
 
 
 
 
 
 
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