la Repubblica, 10 ottobre 2024
È la tv a dettare le regole dello sport
In un memorabile sketch di Indietro Tutta negli anni Ottanta, Renzo Arbore e Nino Frassica facevano credere a Massimo Troisi di essere in realtà Rossano Brazzi: lo aveva deciso la televisione, e la televisione ha sempre ragione. Con la stessa rassegnazione, pure lo sport mondiale è disposto a cambiare identità se glielo ordina la tv. Allora rompe con la tradizione, riscrive le sue regole, reinventa i format delle competizioni per sfuggire alla noia e inseguire un pubblico sempre più esigente, con lo sbadiglio facile e il dito pronto: ieri a cambiare canale, oggi a swippare verso il prossimo contenuto.
World Rugby, il governo mondiale della palla ovale, vara un pacchetto di novità regolamentari per placcare la noia.
L’espulsione sarà provvisoria, un rosso relativo: dopo venti minuti con l’uomo in meno la squadra potrà sostituire il cattivo. Il sacro rito della touche diventerà un po’ più pagano: la palla in certi casi si potrà lanciare anche storta, un messaggio di inclusione per tutte le righe sbilenche tirate nell’ora di educazione tecnica. Per giocare mischie e rimesse laterali arriverà il tetto dei trenta secondi. Non è la prima rivoluzione, non sarà l’ultima: il rugby, percepito come l’ultimo baluardo della tradizione, è in realtà la disciplina che prima e più delle altre ha ammorbidito i principi del gioco per rendersi più accattivante sullo schermo. La moviola in campo c’è dal 2003, il tempo effettivo e ora l’espulsione provvisoria sono idee su cui ragiona seriamente anche il calcio, e presto le adotterà.
In questi anni, in nome dello spettacolo, la pallavolo ha abolito i cambi palla, moto e Formula 1 hanno introdotto la gara sprint e stravolto il meccanismo della pole, il tennis ha detto addio ai cinque set tranne che negli Slam e intanto sperimenta fra i giovani un formato light, non c’è la seconda di servizio, non ci sono i vantaggi e vince chi arriva a quattro game. Persino le Olimpiadi hanno aperto le porte del tempio a discipline che al massimo s’erano intraviste a Giochi senza frontiere, e solo per andare incontro ai gusti del pubblico giovane.
C’è da inseguire dall’altra parte dello schermo una generazione ancora indecifrabile, ma che nell’immaginario comune ha poco tempo, detesta le pause, preferisce un mosaico di highlights al singolo evento, ti dedica al massimo nove secondi (li ha calcolati una recente ricerca), guarda tutti i gol della Champions o le migliori azioni della settimana Nba nel tempo in cui riuscirebbe a vedere solo una partita intera, sempre ammesso che lo voglia. Lo stesso pubblico è però capace di maratone notturne per divorare una intera stagione di una serie evento, a riprova che la vera sfida non è solo ridurre i tempi morti ma appassionare, catturare l’attenzione, riempire di scene eclatanti lo show.
Se lo sport ha senso di esistere solo come spettacolo, se il pubblico pagante che ne alimenta gli affari siede sul divano e non sugli spalti, questo processo di metamorfosi pare ineluttabile, necessario alla sua sopravvivenza, quasi benedetto. Ma la questione è proprio questa: fino a che punto una disciplina può tradire sé stessa?
Ci sono cambiamenti che hanno avuto impatti epocali ma indubbiamente positivi. L’abolizione del retropassaggio al portiere ha velocizzato il calcio e modernizzato il gioco senza svenderne l’anima (altre innovazioni, come il golden e il silver goal, sono state abolite senza rimpianti). Il rally point system ha accorciato le partite di volley, però ha reso molto più complicate le grandi rimonte e dunque in certi casi più scontato, meno spettacolare, l’esito finale. Un paradosso. E la nuova Coppa Davis, ripensata con un formato accattivante, lascia la sensazione d’essere meno importante, meno prestigiosa, insomma meno Davis di quella che durava infiniti pomeriggi: se lo sono domandati persino i tifosi italiani che l’hanno festeggiata di nuovo dopo 47 anni. Infatti nel 2025 il torneo tornerà parzialmente alle origini.
È lo stesso senso di smarrimento di chi si è allontanato troppo e non sa come tornare a casa. Proprio come Troisi in quello sketch: se cambi identità, poi non sai più dove hai parcheggiato.
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