la Repubblica, 10 ottobre 2024
Oggi giorno ci vuole puù tempo per spedire una lettere che per aprire un conto in banca
La risposta diplomatica è: «Mi spiace, li abbiamo terminati». La risposta sincera è: «Non li teniamo più, vada all’ufficio postale». Al settimo o ottavo tabaccaio respingente ti rassegni allora e vai all’ufficio postale, stacchi il numerino e ti metti in coda per un francobollo da 1,25 euro, aspetti venti minuti, chiedi all’impiegata, che ti guarda con il compatimento dovuto a chi compra cose da vecchio, tipo un pannolone, una panciera, poi si alza, va ad aprire una cassetta di sicurezza, estrae un faldone, stacca un rettangolino di carta, lo gira, ci annota a matita un numero, torna allo sportello, apre il computer, scrive e digita e scrive, stampa una ricevuta e ti consegna finalmente il francobollo. Da 1,25 euro. Per affrancare una lettera serve più tempo e burocrazia che per aprire un conto in banca.
Ma spedirla è ancora più difficile. Le buchette delle lettere, quelle che stavano di fianco alla porta del tabaccaio, sono state eradicate. Entro la fine di questo 2024, come da programma Agcom deliberato due anni fa, il loro numero totale sarà passato da 46.500 a 29 mila. Ma l’obiettivo finale è ridurle a una ogni cinquemila abitanti. Una strage. Questo paese è efficientissimo quando deve smantellare un servizio. Dicono: sveglia, ci sono email e messaggini, ormai le buche per lettere le usa solo il tre per cento degli italiani. Ma quei poveri tre? Le smart-box promesse, le buchette postali intelligenti (tutto ormai è intelligente, tranne chi dovrebbe esserlo) che sanno di avere corrispondenza nella pancia e chiamano il postino con un whatsapp, chi le ha viste. A Venezia, turisti analogici spaesati tentano pervicacemente di infilare cartoline demodé nelle fessure sul fianco del Fondaco dei Tedeschi, che fu ufficio postale ma ora è un mercatone del lusso, però le vecchie buche per lettere le hanno lasciate, con la loro scritta a caratteri di regime bronzei sul marmo, come un monumento ai caduti: «Impostazione corrispondenze».
Sì, state leggendo un pezzo a forte rischio «dove andremo a finire», ma come diceva McLuhan, è quando i media muoiono che si capisce davvero la loro natura. E il sistema francobollo-buchetta è stato un medium potente, da quando sir Rowland Hill nel 1837 ebbe il colpo di genio di materializzare una tariffa di trasporto in un rettangolino di carta. Era un token, dicevano, una ricevuta, ma erano anche tre centimetri quadri di immaginario che aggiungevano a una corrispondenza privata un richiamo a cose più grandi, dal volto dei sovrani alle commemorazioni di eventi. Così potenti, nella loro suggestione, quei microbi dell’arte tipografica, che divennero l’oggetto della più potente mania collezionistica mai vista sulla terra. Giocattolo «istruttivo», piaceva ai genitori. Pensavano, gli ingenui, che quelle figurine ci insegnassero qualcosa di giusto e opportuno: la storia, l’arte che raffiguravano, il valore del denaro che rappresentavano, ben stampato in cifre, ma anche la sua vanitas, il timbro che ne annullava il valore dopo l’uso, come una sentenza di morte; e poi il metodo, la pazienza, l’ordine mentale necessari per riporli in ordine negli album a taschine. Adesso cosa vuoi riporre mai, i francobolli superstiti sono autoadesivi, non li stacchi più dalle buste neppure con l’acido muriatico.
Ma i francobolli, scrisse Federico Zeri, uno storico dell’arte che, sfidando le ironie dei colleghi, non ha disdegnato di studiarli, scrisse Zeri, dicevo, che «il francobollo è il mezzo più stringato e concentrato di propaganda, quasi un manifesto murale ridotto ai minimi termini». Un grande iconologo come Aby Warburg nel 1927 curò una mostra di francobolli: li definiva «un simbolo dinamico con una distanza metaforica ottenuta attraverso una catarsi mnemonica archeologizzante». Uau! Voleva dire che nella sua modestia il francobollo passava sotto la sbarra doganale della retorica, e contrabbandava nel nostro immaginario dei simboli classici, presentati però con nonchalance: «L’equivalente visivo delle virgolette». Opere d’arte applicata, micromedia iconici di comunicazione che raggiungevano gli angoli più sperduti del paese. Le propagande politiche l’hanno sempre ben compreso, i regimi ne hanno fatto il piccolo mattoncino che regge la grande statua del culto della personalità, le democrazie hanno tentato di affidargli messaggi virtuosi (ricordo un francobollo italiano che invitava alla correttezza fiscale, curioso meta-messaggio, una tassa che invita a pagare le tasse...).
E la buchetta li aspettava. Con le sue due bocche aperte: «Per la città» e «Tutte le altre destinazioni», allusione a un mondo glocale, il comunitario e il planetario affiancati. Ridisegnate nel 1966, quelle sentinelle rosse della interconnessione analogica rassicuravano, dagli angoli delle strade, che era possibile colmare i sei gradi di separazione semplicemente acquistandone il diritto dal tabaccaio a fianco, e dimostrandolo con la marca apposita. Non era un sistema postale, era una visione del mondo.
I media muoiono perché muoiono i loro sistemi sociali di riferimento. Il sistema francobollo-buchetta apparteneva a una struttura sociale verticale, gerarchica, in cui la relazione privata riceveva la benedizione a mezzo timbro di una autorità pubblica e passava per le mani dei suoi funzionari in divisa, i postini. La comunicazione elettronica che ha demolito quel sistema si presenta come orizzontale, autogestita, peer to peer. Ma dietro ci sono i robot ficcanaso del data grabbing. Dietro il francobollo c’era solo la colla.
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