il Giornale, 9 ottobre 2024
Fabio De Pasquale che da Eni era partito e su Eni si è schiantato
Tutto finisce dove tutto era cominciato, nel segno del cane a sei zampe: fu indagando sull’Eni che nel remoto ’93 – anno di bombe, manette e suicidi – Fabio De Pasquale salì alle cronache nazionali; ed è indagando sull’Eni, trentun anni dopo, che la sua carriera si schianta contro una condanna. Continuerà a fare il pm, a meno che il Csm (improbabile) si incattivisca. Ma cariche, onori, grande inchieste, stop.
Nei trentun anni c’è stato di tutto. Con baffi o senza baffi, De Pasquale ha dato l’assalto ai cieli del crimine o presunto tale, purché gli indagati fossero eccellenti e colletti bianchi. È stato il primo a fare condannare Craxi, l’unico a fare condannare Berlusconi. Animato da una buona fede incrollabile, da una convinzione assoluta nel proprio ruolo di inquisitore e moralizzatore, alla fine inciampa in quello che era il suo difetto più lampante: la caccia accanita alla condanna, «questo processo non possiamo perderlo». A costo, come si è visto a Brescia, di nascondere le prove che mettevano a rischio la sua mission, smentendo il bel tomo che si era scelto come supertestimone: Vincenzo Armanna, mestatore e calunniatore, chiamato benevolmente «Enzo» nei corridoi della Procura milanese.
Della tempra del giovane collega arrivato dalla Sicilia, il primo ad accorgersi fu Antonio Di Pietro, che lo tenne alla larga dal pool Mani Pulite. De Pasquale, forte di una autostima tutta messinese, non si abbacchiò, si prese una inchiesta che nessuno filava su un giro di assicurazioni del gruppo Ligresti, ri-arrestò il presidente dell’Eni, Gabriele Cagliari che era già in cella per Mani Pulite. Andò a finire come è noto, Cagliari che si infila un sacchetto in testa, la famiglia che accusa De Pasquale di avergli promesso la libertà e poi essersela rimangiata. Il Csm indaga e assolve. A dicembre del 1994 De Pasquale chiede e ottiene la condanna di Craxi in concorso col defunto Cagliari. Craxi, avendo capito perfettamente come sarebbe andata a finire, ha già traslocato ad Hammamet.
Da allora, mentre l’epopea del pool di Di Pietro tramontava tra dimissioni e polemiche, De Pasquale è andato avanti sempre più tosto e deciso. Forte di un inglese fluent e di un rapporto di ferro con la Guardia di finanza, mette nel mirino Silvio Berlusconi, nel frattempo diventato capo del governo, per la faccenda dei diritti tv, portando a casa l’unica condanna definitiva del Cavaliere. Che replicò parlando di «magistrati indegni che con i soldi degli italiani tramano contro il premier nel pieno della campagna elettorale»: De Pasquale non sporse neanche querela, capendo al volo che quelle contumelie erano a loro modo una medaglia.
Che il doppio successo ne rafforzasse la determinazione era inevitabile. L’assalto al cielo dell’Eni, unico potere permanente del Belpaese, ne è la conseguenza logica. Il capo della Procura, Francesco Greco, gli ritaglia un pool su misura, poi lo fa nominare suo vice. A De Pasquale viene risparmiata la routine dei turni, dei fascicoletti da niente. La base della Procura si ribella. Ma non cambia niente.
Anche lì, nella necessità di giustificare ruolo e privilegi, sta la spiegazione dell’importanza per De Pasquale di arrivare alle condanne dei vertici dell’Eni. Tutto o quasi diventa lecito, persino mettere in discussione il giudice che deve emettere la sentenza. Ma stavolta ha davanti un osso duro: più di Berlusconi, infinitamente più di Craxi. Eni sceglie di non subire, forte di un apparato difensivo da superpotenza. I nodi vengono al pettine, a finire sotto inchiesta è lui, De Pasquale. Come i medici quando si ammalano, anche i magistrati sono i peggiori imputati. Cambia avvocato, in aula soffia e sbotta, non si accorge che udienza dopo udienza la gravità di quanto ha fatto emerge sempre più chiara. Ieri arriva la botta. Lui, come al solito, continuerà a pensare di essere dalla parte del giusto.