La Stampa, 9 ottobre 2024
Intervista a Carlo Ossola
Carlo Ossola, il più europeo dei nostri filologi e critici letterari, è il nuovo presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani. La nomina, firmata dal capo dello Stato il 24 luglio 2024, ha concluso la complessa procedura avviata dal Consiglio dei ministri nella seduta di lunedì 10 giugno e approvata dalle Commissioni Cultura dei due rami del Parlamento. Concede a La Stampa la sua prima intervista.
Ha insegnato più in Europa che in Italia: dal 1976 al 1982, ordinario nell’Università di Ginevra; dal 1982 al 1988 a Padova; dal 1988 al 1999 a Torino; dal 1999 al 2020 al Collège de France. Dopo aver presieduto nel 2021 il Comitato nazionale per le celebrazioni dei 700 anni dalla morte di Dante, si trova a presiedere la Treccani alla vigilia del centenario che cadrà nel 2025.
Qual è stato il primo pensiero quando le è stata annunciata la nomina?
«Ai tempi di Wikipedia e delle sconfinate biblioteche elettroniche di dati consultabili sul web, la responsabilità dell’Istituto dell’Enciclopedia è soprattutto quella di selezionare, ordinare e offrire per insiemi coerenti e “incorporabili” dal lettore i tratti essenziali dei saperi che ci consentono di interpretare il mondo e di agire consapevolmente in società».
Ha anche qualche preoccupazione?
«La preoccupazione principale è quella che discende dall’osservare che la povertà economica di molti strati della popolazione è aggravata da un impoverimento culturale della componente più preziosa della società: i giovani. Raramente si insegna loro quel dispendio favoloso che è la lettura, la curiosità, la solidarietà, il gratuito; né quella libertà incontenibile che è il costruire la propria interiorità».
I libri servono a questo?
«Servono a fermare la fretta, osservare l’invisibile, crescere nel saper interrogare sé e l’universo».
Ha un modello tra i suoi predecessori?
«Sono modelli che soggiogano: da Guglielmo Marconi che fu il primo presidente, dopo il fondatore Giovanni Treccani, al premio Nobel Rita Levi Montalcini, ai tre ultimi, Francesco Paolo Casavola, Giuliano Amato, Franco Gallo, che sono stati presidenti della Corte costituzionale e con i quali ho avuto l’onore di collaborare in questi decenni. Su tutti, date le mie radici piemontesi, mi è caro Luigi Einaudi, primo presidente della Treccani nell’Italia rinata (maggio 1946)».
Uno studioso di poeti presidente della Treccani mentre incalzano la scienza, la tecnica, l’intelligenza artificiale. Chiamato a salvare l’umanesimo?
«Se l’umanesimo è sceverare ipotesi per trovare domande pertinenti al vivere sulla Terra, i veri scienziati sono i nostri migliori alleati. Nei miei due decenni di ricerca e di insegnamento al Collège de France, i seminari più stimolanti sono stati quelli svolti con alcuni colleghi scienziati. Penso per esempio al volume Les libertés de l’improbable diretto insieme ad Alain Berthoz».
Che ruolo ha avuto la Treccani nella crescita della società?
«L’Enciclopedia, il Dizionario Biografico degli Italiani, il Vocabolario, anche nella veste online, hanno formato e formano la memoria collettiva degli Italiani. Un sapere condiviso è una ricchezza fondamentale per creare una coscienza nazionale. E la Treccani ha questo compito».
Quanto serve la cultura a creare futuro?
«Se la finanza si tormenta a congegnare futures, la cultura prepara ad accogliere l’avvenire. Da una parte pattuire contratti, dall’altra il dare spazio a “ciò che ci viene incontro”, l’inatteso, il nuovo. La cultura è soprattutto un’arte del distinguere ciò che è necessario portare con noi da ciò che possiamo lasciar da parte: un esercizio che, tra tanti prontuari speditivi, secerne soprattutto Le pensez-y bien previo a ogni decisione».
E nel creare cittadini?
«Il formare cittadini responsabili è compito di tutte le strutture pubbliche, in particolare della scuola. L’esercizio della cittadinanza è molto più che l’affluenza ogni tanto al seggio elettorale, bensì la costruzione di un luogo comune sempre più ampio, sempre più condiviso. L’Enciclopedia è chiamata ad allargare questo spazio comune dei saperi».
La Treccani è stata vista in passato come «l’altro ministero della Cultura».
«L’Istituto non ha ragioni per pensarsi un ministero, bensì ha il dovere di fornire strumenti affinché ogni insegnamento e ogni apprendimento sia un servizio».
Il fantasma di Gentile aleggia ancora nell’Istituto?
«Non le nascondo, avendo insegnato tanti anni all’estero, che la Riforma Gentile dei programmi scolastici, con il suo anelito di universalità, è la forza del nostro insegnamento secondario e quanto egli fece in collaborazione con Giovanni Treccani per fondare l’Istituto della Enciclopedia, che l’anno prossimo compirà i suoi cento anni, va nella stessa direzione, che va incrementata».
Crollate le ideologie, sono scomparse pure le idee?
«Le idee sono tali se elaborano ipotesi di avvenire. Ora il principio stesso di un socialismo realizzato in un solo Paese (Stalin) e che si tratta solo di esportare è stato di per sé una negazione del fermento critico che le idee suscitano. D’altra parte, ad eccezione di Jürgen Habermas, 95 anni, i grandi pensatori che ci hanno offerto versioni di mondi possibili sono scomparsi e non si vedono eredi».
La Treccani è nata con una missione di storia, di memoria. Qual è la nuova missione?
«La stessa, molto più difficile oggi, perché la Storia sta diventando un coacervo di notizie che dispaiono in poche ore; e la memoria è rimossa in nome di un presente ingordo e caotico».
Qual è lo stato della cultura italiana nel mondo?
«I migliori dei nostri giovani studiosi appartengono spesso alle élites della ricerca internazionale, ed è una soddisfazione. Ma non si riesce a farne rientrare abbastanza per creare una classe dirigente cosmopolita, aggiornata, degna di Terenzio: Humani nihil a me alienum puto, niente di ciò che è umano ritengo estraneo a me».
Si parla delle radici giudaico-cristiane dell’Europa. Come spiega il crescere del razzismo, del rifiuto del diverso?
«Queste radici, storicamente evidenti e feconde, non sono entrate nei principi fondatori dell’Europa e la conseguenza è che non c’è nessun Mosè che ci additi la Terra promessa, pur sapendo che non ci arriverà. Il bisogno di una meta degna quando si è in terra d’esilio è, come ricorda Dante, un imperativo fondamentale dell’umanità. E noi oggi siamo sempre più esuli dalla nostra dignità di uomini».
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